«Si parte da una prima fase di svalutazione della persona, svilimento, intimidazioni. “Non sei buona a nulla”; “guarda invece che brave le tue amiche”; “non sai nemmeno tenere in ordine la casa”. E poi si passa a situazioni di ossessione e gelosia ingiustificata, fino ad impedire alla donna di uscire e di frequentare amici. Per non parlare delle offese verbali e delle violenze fisiche vere e proprie. Quando poi ci sono di mezzo i figli, la furia del persecutore non dà tregua. Abbiamo seguito casi di donne che, esasperate dalle continue violenze fisiche subite da mariti e compagni, hanno deciso di rivolgersi a noi, solo quando l’attenzione coercitiva del convivente si è rivolta ai figli. Soprattutto se piccoli, costretti magari dal padre a subire situazioni irrazionali, come andare a letto senza mangiare, non poter frequentare altri bambini, subire punizioni ingiustificate… E allora l’istinto materno ha il sopravvento “sull’amore malato” per il convivente e la donna si decide a chiedere aiuto ad altre persone, rivolgendosi ad esempio ad associazioni come la nostra».
A confermare queste tragiche situazioni, che purtroppo si verificano ogni giorno, è Stefania Bartoccetti, fondatrice dell’Associazione Telefono Donna (www.telefonodonna.it) che dal 1998 ha sede presso l’Ospedale di Niguarda (tel: 02/64443043-3044). L’abbiamo conosciuta all’evento: “Non chiamatelo amore: Identikit di un rapporto patologico”, organizzato, in previsione della Giornata contro la violenza alle donne (25 novembre) da Bayer, in collaborazione con UNAMSI (Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione), con il patrocinio del Comune di Milano. «Nella sola città di Milano assistiamo più di 200 persone all’anno: la nostra disponibilità, 24 ore su 24, non è solo a livello psicologico o di consigli pratici, ma ci occupiamo anche dell’eventuale ricovero per percosse, della successiva riabilitazione e assistenza legale, in caso di denunce e, nei casi estremi, proponiamo l’allontanamento della madre e dei figli dal convivente, con l’ospitalità, anche per diversi mesi, in strutture protette, una soluzione estrema per evitare pericoli maggiori che possono anche arrivare ai casi limite di omicidio. E devo dire che sono tante le donne che abbiamo “salvato”, in tutti i sensi! Siamo in rapporto costante con le Forze dell’Ordine che, in caso di denuncia, intervengono per “ammonire” il persecutore. Se recidivo, viene poi denunciato all’autorità giudiziaria e rinviato a giudizio. In caso di riconosciuta colpevolezza, si passa al processo e all’eventuale detenzione. In questo caso la donna con i figli può rientrare nella casa familiare che le viene riassegnata dal giudice. Mentre il procedimento dell’ammonimento è veloce (qualche mese), i processi possono durare anche anni: la nostra associazione segue la donna per tutto questo tempo, con assistenza legale gratuita e supporti di ogni genere. Non lasciamo mai sole le donne, anche quando la situazione sembra essere risolta. Cerchiamo di monitorare gli eventi: gli imprevisti sono sempre in agguato e, finché il persecutore è libero di agire, il rischio di recidiva è comunque possibile. Per questo sconsigliamo alle donne di accettare appuntamenti col convivente “per l’ultima volta”, dopo provvedimenti giudiziari. Il pericolo che venga messa in atto una vendetta irreversibile è più che mai reale! E non poche donne sono oggi vive, per aver ascoltato questi nostri consigli» .
Per avere un’idea dell’entità del problema, dal 1° gennaio al 18 settembre 2019 la Procura di Milano ha ricevuto oltre 4000 fascicoli per violenze domestiche. In otto mesi, le denunce sono raddoppiate rispetto alle 2021 del 2018, oltre alle 1151 per stalking, 574 per violenze sessuali e 34 per violenza su minori già riportate per il 2018. È l’allarme lanciato dal Commissario capo della Divisione Anticrimine della Questura di Milano, Luca Vincenzoni: «Per quanto ci riguarda, cerchiamo di essere presenti anche nelle fasi successive alla denuncia, esortiamo a chiamare nel caso in cui si verifichino ulteriori episodi di violenza e parallelamente informiamo l’autorità giudiziaria circa la maggiore esposizione della vittima. Facciamo indagini sul presunto persecutore e raccogliamo informazioni su eventuali atti persecutori (telefonate, e-mail, SMS, appostamenti). Cerchiamo anche di verificare il possesso o meno di armi, intensificando in questi casi i controlli. In caso di allerta, direttamente da parte della donna o di un’associazione, provvediamo a chiamare a colloquio il presunto persecutore e, in caso di possesso di elementi probatori, richiediamo l’ammonimento che, nel giro di pochi giorni, viene recapitato al soggetto, con l’obbligo di percorsi di mediazione: su 100 uomini “ammoniti”, solo 80 però hanno completato questi percorsi. E’ dallo scorso anno che la Questura di Milano ha adottato il Protocollo Zeus, l’intervento che invita gli autori di violenze sulle donne a sottoporsi a un percorso di recupero comportamentale e il protocollo E.V.A. (Esame delle Violenze Agite), procedura che consente agli equipaggi di Polizia di intervenire immediatamente su casi di violenza domestica, se ci sono stati altri episodi in passato nello stesso ambito familiare. Quando si assiste a una recrudescenza delle violenze, si interviene con il rinvio a giudizio e, in caso di flagranza di reato, con l’arresto immediato. Questi protocolli rappresentano un grande passo avanti: se ben applicati, possono davvero permettere di ridurre quell’escalation di violenza che potrebbe anche arrivare ad estreme conseguenze. E possono aiutare ad affrontare anche altri contesti delicati, perché generalmente la vittima è una donna, ma non mancano casi in cui sia padri che madri vengono maltrattati dai propri figli o viceversa», conclude il Commissario Vincenzoni. Sono 1.783 le donne che l’anno scorso si sono rivolte ai centri antiviolenza convenzionati con il Comune di Milano. Di queste, la maggior parte (911) ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, mentre 403 sono ragazze under 30 a cui si aggiungono 46 soggetti non ancora maggiorenni e 46 over 70.
«L’abbassamento dell’età delle donne che si rivolgono al centro antiviolenza è un segnale importante», aggiunge Elisabetta Sala, volontaria C.A.DO.M, Centro Aiuto Donne Maltrattate Di Monza. «Significa che le giovani sono più consapevoli delle situazioni di violenza che possono vivere e ciò le spinge a chiedere aiuto in tempi più brevi e non dopo anni e anni di violenze. C’è un sensibile aumento anche del dato di donne più anziane che subiscono violenza da parte dei figli. L’associazione D.i.Re, di cui facciamo parte, riunisce in un unico progetto più di 80 organizzazioni di donne che affrontano il tema della violenza maschile secondo l’ottica della differenza di genere».
La rete antiviolenza sostenuta dal Comune di Milano, che comprende 9 Centri antiviolenza e 9 Case rifugio, organizza anche gruppi di lavoro tematici su donne, violenza e disabilità, su violenza e donne con background migratorio, su violenza e luoghi di lavoro e sulla comunicazione. Ma in quali condizioni psicologiche arriva la donna che si rivolge ad un Centro Antiviolenza e come ne esce alla fine del percorso? «È difficile generalizzare, ma la donna che arriva al nostro Centro ha una bassissima autostima e un senso di colpa e di vergogna per la violenza che subisce o ha subito nel corso degli anni», conclude Elisabetta Sala. «Noi puntiamo sostanzialmente al rafforzamento delle parti di quella donna che sono state indebolite e mortificate negli anni di violenza che, nell’80% dei casi, è intra-familiare».
In aggiunta ai Centri Antiviolenza, gli operatori sanitari svolgono un ruolo di grande rilievo nell’identificazione e nella prevenzione. In seguito a pestaggi o abusi, infatti, il pronto soccorso ospedaliero diventa un punto di accesso preferenziale per la donna percossa o vittima di violenza sessuale ed è proprio in tale contesto che il personale sanitario è il primo interlocutore per i soggetti che arrivano spesso in un forte stato confusionale.
«Ormai la tipica frase “sono caduta dalle scale” di una donna che arriva al Pronto Soccorso con edemi ed ecchimosi su tutto il corpo, non è più credibile», commenta Mario Mancini, Endocrinologo dell’Ospedale San Paolo di Milano. «Per questo l’approccio del medico deve essere delicato e rispettoso, ma allo stesso tempo convincente nei confronti della donna che non può trascurare quanto le è accaduto. Inoltre, come medici abbiamo anche la responsabilità di dover prevenire questi comportamenti violenti. Dal nostro Osservatorio di Endocrinologia pediatrica, abbiamo avuto modo di constatare un crescendo di atteggiamenti violenti nei giovani: a sette anni arrivano per le visite accompagnati dalla mamma, in atteggiamento quasi sempre remissivo; a 14 anni sono quasi sempre intrattabili e irascibili! Da studi scientifici recenti, si è visto che adolescenti con comportamenti aggressivi, analizzati con Risonanza Magnetica encefalica, evidenziano una maggiore attività della zona cerebrale adibita al piacere, in presenza di scene di violenza. Questo vuol dire che certamente un ormone come il testosterone gioca la sua parte. Ma l’educazione, sia a livello scolastico, ma soprattutto familiare, è fondamentale per far acquisire un atteggiamento responsabile ai nostri ragazzi. La violenza di genere è soprattutto un problema culturale. Dobbiamo educare le nuove generazioni al rispetto dell’altro sesso, diffondendo sia una educazione che valorizzi una sessualità responsabile, sia il rispetto per una psicologia e una visione della vita differente, come può essere quella femminile, che non deve apparire “prevaricatrice”, suscitando atteggiamenti aggressivi, ma deve essere considerata “complementare” e indurre al confronto, al dialogo e al rispetto!».
di Paola Trombetta
Una App per educare e aiutare le donne in difficoltà
«Da ricerche condotte su Internet, abbiamo potuto constatare che è uno degli strumenti social più utilizzato dalle donne per chiedere aiuto in caso di violenze familiari. Forse per salvaguardare l’anonimato, molte donne si confidano sul web, raccontano le loro storie e chiedono consigli. Per questo abbiamo deciso di creare una Start-App (www.mamachat.org) dove le donne possono rivolgere qualsiasi domanda, con la certezza di ottenere risposte in tempo reale da parte di specialisti e psicologi competenti». Così Margherita Fioruzzi racconta la sua idea di creare con alcuni colleghi questa formula di “aiuto on-line” a donne in difficoltà. «In due anni abbiamo avuto più di 5 mila contatti, anche da parte di associazioni con cui facciamo rete e interveniamo a volte concretamente per risolvere i problemi delle donne che a noi si rivolgono, il tutto nel più totale anonimato. Siamo sempre attive e il nostro personale qualificato è in grado di rispondere a domande a livello pratico, psicologico, legale, in qualunque momento e per qualunque circostanza. Vorremmo rappresentare un punto di riferimento sicuro, per dare fiducia e sostegno a tutte le donne in difficoltà ed “educarle” a non commettere errori che potrebbero anche comprometterne la vita». P.T.