Procreazione medicalmente assistita e genitorialità programmata restano un “terreno infertile” per gli italiani. Ne sanno poco, non ne parlano per tabù e imbarazzo, hanno paura di aspettare un figlio, sono timorosi dell’insicurezza del contesto socio-economico. Risultato: anche la fascia di popolazione giovane, in età fertile e genitoriale, ignora le cause e i fattori di rischio che rendono più difficile o talvolta impossibile il concepimento naturale, e non conoscono le metodiche di procreazione assistita che consentono oggi di programmare responsabilmente una maternità, per necessità di salute o per “scelta” in funzione del cambiamento del ruolo della donna, mamma e professionista, nel tessuto sociale, oggi libera di scegliere se e come essere madre.
Sono le considerazioni emerse da un’indagine di IVI, Istituto Valenciano per l’Infertilità di Roma, condotta da Ixè tra la popolazione giovane e mediamente adulta – 600 uomini e donne tra i 25 e i 44 anni – in tema di infertilità, fecondazione assistita (PMA) e genitorialità, presentata a Milano nel corso di Tavola Rotonda IVI “Essere Mamma Oggi”. Indagine che ha attestato un profilo di disinformazione allarmante, a partire dai fattori complici dell’insorgenza di infertilità. Mediamente gli intervistati la attribuiscono a stili di vita scorretti, come il fumo e l’alcool, ritenuto un’abitudine limitante il concepimento da oltre sei intervistati su 10, mentre sottostimati sono gli effetti di anoressia e obesità, agenti inquinanti e malattie sessualmente trasmesse.
«Quest’ultimo aspetto – spiega la dottoressa Daniela Galliano, direttrice di IVI – non è da sottovalutare, ma è un dato su cui fare informazione e sensibilizzazione circa le molteplici opportunità di prevenzione protette o terapeutiche, ad esempio attraverso i vaccini nel caso dell’HPV, il papilloma virus responsabile dei tumori alla cervice uterina, considerando che le malattie a trasmissione sessuale, spesso asintomatiche, sono un veicolo di contagio e di aumento dei tassi di potenziale infertilità importante».
Ma non è la sola lacuna: anche la biologia è un questione incerta; infatti la maggioranza del campione ritiene che la fertilità comincia a ridursi tra i 36 e i 45 anni, fino al 17% (quasi due persone su 10) stimano questa soglia tra 46 e 50 anni e un ulteriore 11%, in misura superiore gli uomini, dopo i 50 anni. Mentre la fertilità inizia a ridursi dopo i 30 anni, con un calo importante intorno ai 35. «Sono le donne, le meglio informate – commenta la dottoressa Galliano – soprattutto nella fascia di età tra 30 e 34 anni, con una consapevolezza proporzionale al grado di istruzione». Non va meglio neppure su altri fronti, come la diffusione dell’infertilità tra la popolazione: non la sa quantificare il 27% degli intervistati, mentre per tre su 10 la percentuale oscilla dal 10 al 30%. «La verità – chiarisce la dottoressa – è invece che all’incirca il 15% delle coppie ha problemi di infertilità, non riuscendo cioè a concepire naturalmente dopo 12-24 mesi di rapporti regolari e non protetti. L’incidenza del problema è molto simile negli uomini e nelle donne, pari al 30% imputabile esclusivamente all’uno o all’altro, contro il 20% di problemi imputabili a entrambi i partner e, ancora, il 20% in cui la causa dell’infertilità resta sconosciuta».
Oggi esistono comunque opportunità per diventare genitori anche in caso di infertilità: adottando un bimbo, soluzione preferita dal 49% degli intervistati, soprattutto uomini o coppie già con figli, o avviandosi a un percorso di PMA, scelto dal 48% del campione, soprattutto donne o da chi è ancora alla ricerca di un bebè. E fra questi il 37% accetterebbe anche la donazione eterologa, soprattutto le donne (24%), più degli uomini, tra i 25-29 anni. «La fecondazione eterologa – puntualizza Galliano – è una metodica attraverso cui la coppia ricorre agli ovociti o agli spermatozoi di una donatrice o di un donatore, per poter realizzare il proprio desiderio di genitorialità. Tra gli intervistati il 41% sarebbe favorevole in ogni caso e il 20% solo con gameti provenienti da un parente, forse per il timore che il figlio non sia effettivamente proprio. Invece recenti ricerche di epigenetica hanno dimostrato che alcune informazioni genetiche della donna ricevente, quindi della futura mamma, passano ai gameti donati e al bimbo che “eredita” perciò i tratti della mamma che lo porta in grembo». La fecondazione eterologa è solo una delle tecniche di PMA: tra le più innovative c’è il social freezing, la crioconservazione di ovociti che consente di preservare nel tempo la fertilità di una donna, permettendo di ritardare la maternità per motivi personali, sociali o terapeutici. «La crioconservazione – aggiunge l’esperta – rappresenta sempre più un’opportunità per il futuro. Se una donna decide di preservare i suoi ovuli quando questi sono ancora “giovani”, nel momento in cui cercherà una gravidanza potrà utilizzarli e avere le stesse probabilità di concepire che avrebbe avuto al momento della conservazione. Viene quindi consigliata sia a donne che desiderano diventare mamme più avanti nel tempo, sia per motivi medici, ad esempio di tipo oncologico, a pazienti che dovranno essere sottoposte a chemio o radioterapia, o a un trapianto di midollo osseo, ma anche nel caso di interventi chirurgici, con il rischio di perdita totale o parziale delle ovaie, e in caso di interventi per endometriosi. Una volta guarita dal tumore, la donna potrà utilizzare questi ovuli e fecondarli attraverso tecniche di PMA con il liquido seminale maschile, per generare un embrione da trasferire in utero. Un recente studio pubblicato su Fertility and Sterility, condotto da IVI e da INCLIVA, Università di Valencia, dimostra che la qualità degli embrioni ottenuti dagli ovociti vitrificati resta simile a quella degli embrioni da ovociti freschi». Solo il 17% degli intervistati, secondo l’indagine, conosce questa metodica e sa che si può praticare anche nel nostro Paese, contro il 37% che non sa se si pratica in Italia e il 20% che crede non sia consentita. Inoltre, nel caso in cui una donna abbia crioconservato i propri ovociti e a distanza di tempo voglia utilizzarli per diventare madre, nel 52% dei casi ritiene di essere libera di farlo in qualunque momento, a prescindere da qualsiasi valutazione familiare o sociale, mentre il 10-20% circa pone il limite di alcune condizioni come salute, età e stabilità di coppia.
«I dati dell’indagine – aggiunge Margherita Sartorio, amministratore Delegato Ixè – attestano complessivamente che la crioconservazione, anche nello specifico del social freezing, è considerata una scelta non egoistica, indolore e sicura, sia per il nascituro che per la madre, ma costosa e innaturale. Sebbene emergano i tratti di un fenomeno ancora poco conosciuto in Italia, l’atteggiamento di iniziale apertura rappresenta un segnale incoraggiante».
La salute, la poca informazione sull’infertilità, la mancanza di un compagno, non sono le sole motivazioni che frenano la coppia ad avere figli: c’è la paura della genitorialità a causa di questioni economiche, di incertezze riguardo al lavoro, a come trovarlo e mantenerlo, di insicurezze sulla capacità di crescere un figlio, di eventuali limiti alla carriera riportati però solo dal 6% dei 25-44enni, in particolare da chi ha già figli e ne desidera altri. Si aggiungono anche problemi psico-emotivi legati a contesti di abbandono, solitudine, violenza, grave disagio economico ed emarginazione sociale. «Sono migliaia le mamme e le famiglie – conclude Katia Pacelli, direttrice dell’Associazione Salvamamme, che da oltre vent’anni offre aiuti concreti e supporto in ambito sanitario, psicologico, legale, logistico, ludico, pedagogico e formativo – a cui doniamo beni di prima necessità nel pieno rispetto della dignità di quanti, forse per la prima volta nella vita, si sono trovati a chiedere per accendere una speranza e incoraggiare la volontà di farcela, anche nel caso della progettualità di un figlio».
di Francesca Morelli