«Ero appena stata operata di un tumore al seno, particolarmente aggressivo. Era il 2013: avevo 50 anni e tre figli, di cui la piccola Viola di soli tre anni. La visita dall’oncologo, dopo l’intervento chirurgico, fu una profonda delusione. Ma fu anche lo stimolo per reagire alla malattia. Lo specialista mi ricevette serio, alle 15.30 in punto, all’Istituto Europeo di Oncologia. Con tono asciutto e distaccato, in cinque minuti, mi spiega il decorso della malattia. “Vede, signora, lei ha tre possibilità: non fare nulla; fare una chemioterapia blanda; oppure una più forte. A lei la decisione”. Non sapevo cosa rispondere, ma una domanda mi venne spontanea: quale terapia è più efficace? “La chemio pesante”. E allora, dottore, ho già scelto: farò quella perché devo assolutamente vivere per veder crescere i miei figli! E sono stati loro a darmi il coraggio di affrontare la terapia che, spesso, ha avuto effetti collaterali devastanti nel fisico e nella psiche. Ma ho sempre cercato di non far pesare la mia sofferenza in famiglia. E ho fatto mia la celebre frase di Sant’Agostino: “La speranza ha due figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”».
Oggi Donatella Di Paolo, da trent’anni giornalista a Mediaset, ha deciso di cambiare vita. L’esperienza della malattia l’ha spinta a cercare un modo per aiutare il prossimo, “meno fortunato di lei”. Grazie all’incontro con il dottor Enrico Cassano, radiologo dello IEO, impegnato nelle attività sanitarie promosse dalla Fondazione Francesca Rava, Donatella si impegna attivamente e si adopera in questi anni per curare la realizzazione del progetto “Women Breast Task Force” presso l’Ospedale St. Luke nella zona periferica della capitale Port-au-Prince in Haiti, un ambulatorio specialistico per la diagnosi e la cura delle donne con tumore al seno (vedi articolo pubblicato il 20 dicembre 2018, al link: https://www.donnainsalute.it/2018/12/ad-haiti-trovato-vero-senso-del-natale/). Ad Haiti scopre una realtà di sofferenza, ma capisce anche il valore della solidarietà e della vicinanza alle persone che soffrono, soprattutto le mamme e i bambini. E l’importanza di portare in questi Paesi la professionalità dei medici, ma anche tanta umanità. Un approccio che non sempre, anche nei nostri ospedali, viene messo in pratica.
Le parole con le quali i medici comunicano la malattia possono creare nel paziente reazioni differenti. Nel caso di Donatella, la freddezza della comunicazione della diagnosi ha suscitato una sorta di shock psicologico che ha comunque favorito una reattività positiva. E la speranza di vedere crescere i propri figli ha dato un contributo decisivo ad affrontare in modo positivo la malattia. Generalmente parole di rassicurazione, incoraggiamento, anche tenerezza, incidono positivamente nel percorso di guarigione.
Nella Giornata Mondiale dedicata al Malato (11 febbraio), fa bene ricordare ai medici e agli operatori sanitari l’importanza dell’approccio “gentile” nei confronti di chi sta soffrendo. E’ stato questo il tema del Convegno “La speranza è un farmaco” che si è tenuto sabato scorso presso l’Ospedale San Gerardo di Monza e ha preso il titolo dal libro scritto da Fabrizio Benedetti, professore di Fisiologia umana e Neurofisiologia all’Università di Torino.
«La grande scoperta di questi ultimi anni è che le parole sembrano agire sugli stessi meccanismi neurologici sui quali agiscono anche i farmaci», conferma lo stesso professore. «Dalle recenti sperimentazioni, curate anche dalla nostra università, abbiamo dimostrato che le parole positive, di comprensione, di coraggio, i messaggi di speranza attivano neurotrasmettitori, come le endorfine, che provocano sensazioni di benessere e attenuano anche il dolore. Le parole possono agire direttamente sui meccanismi che regolano la percezione del dolore, con la stessa efficacia degli oppioidi. Abbiamo visto addirittura che nella malattia di Parkinson, somministrando un farmaco placebo (che non contiene alcun principio attivo), ma convincendo il soggetto che si tratta invece di una vero farmaco innovativo, si è avuto un evidente miglioramento delle performances fisiche, in alcuni soggetti particolarmente sensibili e recettivi. Non tutte le persone però rispondono allo stesso modo. E soprattutto l’effetto cosidetto “placebo” può funzionare in alcune malattia che coinvolgono neurotrasmettitori particolari, come la malattia di Parkinson, la depressione e i disturbi dell’umore, il sovraffaticamento fisico e talvolta anche sulla percezione del dolore. Ovviamente- precisa il professore- la terapia delle parole non ha alcun effetto su patologie di origine virale o batterica, per le quali è d’obbligo l’utilizzo di antibiotici e antivirali. Non funziona poi sul decorso della malattia oncologica, ma può nettamente migliorare l’umore e la reattività del malato. Anche come anestesia, l’effetto placebo non funziona e non può certo sostituire le sostanze che provocano sedazione profonda. E’ dunque fondamentale utilizzare le proprietà dell’ “effetto placebo” laddove realmente potrebbe dare un beneficio e non illudersi che possa funzionare in tutti i casi e su tutte le persone».
di Paola Trombetta