Oltre 5.500 casi: sono i bambini e ragazzi, tra 0 e 19 anni in prevalenza maschi, colpiti in Italia da Coronavirus dall’inizio della pandemia ad oggi. La minoranza, con una percentuale pari a circa il 3% del totale, con sintomi e implicazioni meno gravi e più contenuti e una letalità globale di circa lo 0,3%, soprattutto nelle prime fasce di età e fino ai 9 anni.
Sono queste le ultime stime diffuse dall’Istituto Superiore di Sanità, confermando che, seppure i giovani e giovanissimi abbiano potenzialmente barriere difensive più forti contro il virus, non ne sono immuni e possono essere comunque un sensibile veicolo di contagio. È questa la tesi emersa da due studi internazionali che attesterebbero un ruolo anche dei piccoli nella diffusione della pandemia, giustificando la decisione di chiudere le scuole e di monitorare gli effetti nella quotidianità ravvicinata con gli adulti. Le “prove” dei due studi sembrerebbero avere un fondo di verità, sebbene non portino ancora a reali certezze sulla capacità di trasmissione del virus dei bambini verso gli adulti.
Un primo studio condotto dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento, pubblicato su Science, ha preso in considerazione una serie di dati riguardo 636 persone di Wuhan e 557 di Shanghai, le due città cinesi primi focolai del virus. I ricercatori, nel corso di una prima chiamata, hanno recuperato informazioni dettagliate riguardo le persone con cui i partecipanti allo studio erano entrati in contatto il giorno prima della telefonata, ripetendo la stessa analisi durante il periodo di lockdown e dopo la riapertura. «Dall’esame dei dati raccolti – spiega Marco Ajelli, che ha curato la ricerca per la Fondazione – abbiamo potuto osservare che i bambini erano sensibili all’infezione da coronavirus solo per un terzo rispetto agli adulti. Dall’altro lato però abbiamo rilevato che, con l’apertura delle scuole, il rischio per i bambini di contrarre l’infezione si triplica a seguito di probabilità tre volte superiori di stare a contatto con gli adulti, pareggiando così il loro livello di rischio (e di veicolo di contagio) a quello dei grandi». A dimostrazione che la chiusura delle scuole è stata strategica per ridurre il rischio di contagio di circa 40-60% e rallentare (non azzerare) l’epidemia, stimando una possibile seconda ondata di casi con la ripresa delle lezioni.
Un secondo studio tedesco, condotto dall’Università di Berlino su una cinquantina di bambini infetti tra 1 e 11 anni, di cui solo 15 sintomatici, ha mostrato che gli asintomatici presentavano comunque cariche virali altrettanto alte o anche superiori, al pari di adulti sintomatici. Ovvero, anche i bambini sono un potenziale veicolo di contagio.
Di opinione opposta è invece uno studio olandese, pubblicato sul sito del National Institute for Public Health and the Environment, Ministry of Health, Welfare and Sport, dei Paesi Bassi, secondo cui i bambini e giovani sotto i 20 anni “influenzerebbero” in maniera assai contenuta la diffusione del virus in confronto a adulti e anziani. Mentre è in corso uno studio sempre del National Institutes of Health, nell’ambito del progetto Heros, su 6.000 persone di 2.000 famiglie, che intende vagliare la tipologia di bambini a maggior rischio di infezione per coronavirus e chiarire le potenzialità di contagio dei piccoli in relazione ai membri familiari.
Su un aspetto però tutti i ricercatori concordano: occorre decidere e trovare nuovi modi di frequentare la scuola, nel rispetto del distanziamento sociale, alla prossima ripresa.
In questo panorama di semi-incertezza sul ruolo dei bambini nella diffusione del virus se ne aggiungono altre riguardo possibili condizioni che potrebbero contribuire alla diffusione dell’infezione nelle fasce più piccole della popolazione. Sotto osservazione ci sono ad esempio le sindromi infiammatorie multi-organo, segnalate come causa e potenziamento del rischio di contagio in bambini e adolescenti in Europa e Usa, e la Malattia di Kawasaki. «La prima – chiariscono dall’Oms – è una condizione di infiammazione sistemica che può compromettere le arterie del cuore o dare shock tossico che si “lega” a Covid-19 per la sierologia positiva nella maggior parte dei bambini in cui la sindrome è stata riscontrata. Questa, che si manifesta similmente al virus con febbre, congiuntivite, associati a infiammazione orale, sulle mani o sui piedi, problemi gastrointestinali acuti, richiede una migliore caratterizzazione delle cause, dei sintomi e dei fattori di rischio, per definirne il miglior trattamento».
Anche la Malattia di Kawasaki sembra associarsi al coronavirus, per il fatto che è stata rilevata soprattutto in bambini residenti nelle zone con il maggior tasso di infezione. «Si tratta di una vasculite, un processo infiammatorio a carico dei vasi sanguigni – aggiunge Angelo Ravelli, segretario del gruppo di studio di Reumatologia della Società Italiana di Pediatria – che colpisce i bambini sotto i 10 anni, più spesso prima dei 5, che manifestano classici sintomi: febbre alta persistente, eruzione cutanea, alterazioni delle mucose e delle estremità. La causa della malattia è ancora ignota, ma l’ipotesi più probabile sembra correlarsi a un agente infettivo che nei piccoli predisposti induce una risposta infiammatoria eccessiva, complicata talvolta da un’infiammazione delle arterie del cuore, causa di dilatazioni tipo aneurisma, permanenti delle coronarie». Accuratamente diagnosticata e trattata tempestivamente con immunoglobuline e acido acetilsalicilico, se necessario anche cortisone, la Malattia di Kawasaki guarisce. Se questa condizione può essere aggravata dal coronavirus, è confortante che sia stata riscontrata solo in pochi bambini infettati da virus: solo l’1%. L’attenzione deve restare comunque alta perché in una percentuale di casi la malattia si è manifestata in modo incompleto o atipico, con resistenza alle terapie tradizionali o con una evoluzione verso una sindrome da attivazione macrofagica, una condizione che porta le cellule spazzino (macrofagi) a eliminare non solo le cellule infette, ma anche quelle sane, che spesso richiede trattamenti aggressivi fino al possibile ricovero in terapia intensiva. «Non è ancora chiaro – concludono i pediatri – se il Coronavirus sia “artefice” dello sviluppo della Malattia di Kawasaki o di una patologia sistemica con caratteristiche simili, ma secondaria all’infezione. Tuttavia l’elevata incidenza in zone ad alta incidenza di Covid-19, quali Lombardia, Piemonte e Liguria, associata alla positività dei tamponi o della sierologia, ne fa supporre lo stretto legame».
Dunque un monito per tenere alta la guarda nella Fase 2 e 3 della pandemia, e con la prossima riapertura delle scuole, senza comunque trascurare tutte le altre implicazioni che il Coronavirus può e potrebbe causare, tanto nei bambini quanto negli adulti, il cui vincolo di contagio tra gli uni e gli altri è sensibilmente elevato.
di Francesca Morelli