Tumore del polmone: l’immunoterapia può diventare una cura

È uno dei tumori in aumento, soprattutto nelle donne, a causa della sempre più diffusa abitudine al fumo di sigaretta: il 30% delle nuove diagnosi riguarda infatti il sesso femminile. Purtroppo però rappresenta ancora oggi uno dei tumori a più alta mortalità. Ogni giorno, in Italia, vengono diagnosticati più di 115 casi di tumore del polmone e, nel 2019, ne sono stati registrati 42.500. Per i pazienti colpiti dalla forma più diffusa, quella non a piccole cellule, l’immunoterapia associata a pochi cicli di chemioterapia (due invece dei soliti 4-6), ha evidenziato un netto vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto alla sola chemioterapia. Lo dimostrano alcuni studi, presentati al Congresso della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO), quest’anno in versione online.

«Si tratta di una neoplasia difficile da trattare, perché il 70% dei casi viene scoperto in fase avanzata», fa notare il professor Federico Cappuzzo, Direttore Unità Operativa di Oncologia di Ravenna e del Dipartimento di Oncoematologia AUSL Romagna. «Particolarmente promettente si è rivelata nel tumore metastatico la duplice terapia immuno-oncologica, costituita da due farmaci, nivolumab e ipilimumab, in associazione a due cicli di chemioterapia (anziché i 4-6 tradizionali): questa combinazione farmacologica ha ridotto il rischio di morte del 31% rispetto alla sola chemioterapia, con un follow-up di 8 mesi. Se prolungato (12,7 mesi), l’associazione ha mostrato un miglioramento duraturo della sopravvivenza rispetto alla sola chemioterapia: 15,6 mesi anziché 10,9 mesi». Sono i dati dallo studio di fase 3 CheckMate-9LA, presentato all’ASCO.

«La combinazione di due molecole immuno-oncologiche consente di ottenere un meccanismo d’azione più completo e sinergico», spiega il professore. «Ipilimumab contribuisce all’attivazione delle cellule T del sistema immunitario e nivolumab indirizza queste cellule contro quelle del tumore. Si è visto inoltre che alcune cellule T, stimolate da ipilimumab, diventano “cellule della memoria” e sono in grado di mantenere la risposta immunitaria per lungo tempo. L’aggiunta di cicli limitati di chemioterapia (2 anziché i 4/6 tradizionali) permette di evitare gli effetti collaterali molto temuti dai pazienti, soprattutto a livello ematico. Nello studio CheckMate -9LA ai pazienti sono stati somministrati solo due cicli di chemioterapia, che equivalgono a 21 giorni di trattamento: pertanto il paziente in meno di un mese termina la chemioterapia e prosegue il trattamento solo con l’immunoterapia. Un passo avanti importante, dunque, non solo dal punto di vista della tollerabilità, ma anche dell’impatto psicologico della cura». Lo studio CheckMate -9LA ha coinvolto più di 700 pazienti e ha mostrato un tasso di sopravvivenza libera da progressione di malattia del 33% a un anno, rispetto al 18% con la chemioterapia tradizionale.

Risultati incoraggianti si sono avuti anche con un altro farmaco (pembrolizumab) in combinazione con la chemioterapia: ha ridotto la mortalità del 44% rispetto alla sola chemioterapia, nel tumore al polmone non a piccole cellule, non squamoso, metastatico. In particolare il 45,7% dei pazienti trattati con questa combinazione era vivo dopo due anni, rispetto al 27,3% trattato solo con la chemioterapia: i dati sono stati confermati all’ASCO dallo studio Keynote-189.

L’importanza dei test di biologia molecolare

«Oggi in Italia vivono quasi 107 mila persone con pregressa diagnosi di tumore del polmone, dieci anni fa erano 82mila, con un incremento del 30%», aggiunge il professor Cappuzzo. «La speranza di vita di questi pazienti si sta dunque allungando grazie alle terapie innovative. Anche la qualità di vita è decisamente migliorata. Resta invece la preoccupazione per il consistente aumento di casi tra le donne, riconducibile alla diffusione dell’abitudine al fumo di sigaretta, sempre più “rosa”. Il 30% delle nuove diagnosi in Italia riguarda infatti le donne. Inoltre, si osserva un incremento di alcune forme tumorali, in particolare dell’adenocarcinoma, cioè del tumore del polmone non a piccole cellule non squamoso. Questa tendenza è legata a diversi fattori, che vanno dalla diffusione del fumo di sigaretta, all’affinamento di tecniche diagnostiche, che consentono di individuare e classificare la neoplasia in maniera più precisa rispetto al passato. Oggi, al momento della diagnosi, vengono eseguiti test di biologia molecolare, di tipo sia immunoistochimico che mutazionale, che consentono di definire meglio l’istologia del tumore. Queste conoscenze migliorano nettamente l’approccio terapeutico». In alcuni tumori del polmone, infatti, si è riscontrato, con un esame di biologia molecolare, una particolare mutazione del recettore di un fattore di crescita (EGFR), sensibile a uno specifico farmaco (osimertinib). Nei pazienti con tumore polmonare non a piccole cellule, in uno stadio precoce, che presentano la mutazione di questo recettore, si è avuto un rilevante miglioramento utilizzando questo farmaco. La conferma viene dallo studio Adaura, anch’esso presentato all’ASCO: dopo due anni di trattamento, l’89% dei pazienti è vivo e libero da malattia. «Questi risultati rappresentano un passo avanti molto importante per il trattamento di questo tumore che colpisce circa 36 mila persone all’anno in Italia», conclude la professoressa Silvia Novello, ordinario di Oncologia medica all’Università di Torino. «Si viene sempre più prospettando un cambio di paradigma che vede finalmente l’introduzione di una medicina di precisione in un setting in cui l’intento dei trattamenti è la cura del tumore».

Paola Trombetta

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