Monica ha scoperto di avere un tumore all’ovaio due anni fa: soffriva di un continuo gonfiore all’addome che non riusciva a spiegare. Da allora non si è mai persa d’animo: tra intervento di asportazione, test per la ricerca della mutazione del BRCA, a cui è risultata positiva, e cure mirate ha sempre affrontato con coraggio la malattia. Sara, con lo stesso tumore, ma di tipo diverso (BRCA negativo), ha cercato informazioni e sostegno presso un’Associazione di pazienti che l’hanno supportata in tutto il percorso di cura. Entrambe le testimonianze fanno parte dei sei video-racconti, realizzati da Paola Pessot, con Claudia Gerini come testimonial, per la Campagna di sensibilizzazione “Tumore Ovarico, manteniamoci informate!” che da oggi si possono vedere, con cadenza quindicinale, sul sito web www.manteniamociinformate.it e sui profili Facebook e Instagram.
La Campagna d’informazione è promossa da Fondazione AIOM, assieme ad ACTO Onlus, LOTO Onlus, Mai più sole e aBRCAdabra, con il sostegno incondizionato di GSK, che nei prossimi mesi porterà avanti una serie di attività online, campagne social ed eventi sul territorio nazionale.
In Italia ogni anno oltre 5.200 donne ricevono una diagnosi di tumore ovarico, uno dei più aggressivi tumori femminili: 3.500 non riescono a sopravvivere; più di 50 mila donne ci convivono. A causa di sintomi aspecifici o non riconosciuti, nell’80% dei casi la malattia viene diagnosticata in fase avanzata. Tra le novità più importanti di questi ultimi anni, la possibilità per le pazienti di accedere alle terapie di mantenimento, che permettono di allontanare le ricadute dopo chemioterapia e si sono dimostrate efficaci nel controllo di questa neoplasia.
«Uno dei progressi raggiunti in questi ultimi anni è la possibilità di utilizzare, in fase di mantenimento dopo la chemioterapia, terapie orali con i PARP inibitori, che hanno aumentato in modo significativo il tempo libero da progressione di malattia nelle donne con mutazione BRCA», dichiara Stefania Gori, Presidente Fondazione AIOM e Direttore Dipartimento Oncologico IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, Negrar. «Finalmente adesso i PARP inibitori possono essere utilizzati anche nelle pazienti “senza” mutazione BRCA, che rappresentano il 75% del totale e, fino a poco tempo fa, avevano poche alternative terapeutiche. Questi farmaci possono essere utilizzati dopo la chemioterapia, oppure al momento della recidiva di tumore. Purtroppo però, ancora oggi, tre pazienti su 4 senza mutazione BRCA, con recidiva di malattia, non sono in terapia di mantenimento con un PARP inibitore o non lo ricevono in modo tempestivo. Si spera che questo dato sia destinato a migliorare nel tempo».
La diagnosi precoce del carcinoma ovarico non è ancora possibile e spesso viene diagnosticato tardivamente. «Purtroppo oggi per il tumore ovarico non esistono ancora strumenti validi di prevenzione o di screening», conferma Nicoletta Cerana, Presidente di ACTO Onlus. «Campanelli d’allarme potrebbero essere gonfiore addominale, disturbi digestivi, che purtroppo vengono spesso scambiati per colite o gastrite. Ogni donna può imparare a riconoscere i sintomi e a parlarne con il proprio medico nel caso si presentino tutti insieme o in un breve arco di tempo. L’esame per accertare la diagnosi è l’ecografia trans vaginale. È di questi giorni la notizia pubblicata sulla rivista scientifica Jama Network Open di una ricerca dell’Istituto Mario Negri che sta sperimentando una nuova procedura per la diagnosi precoce del tumore ovarico sieroso con il Pap test, il cui materiale viene analizzato con nuove tecnologie di sequenziamento del Dna» (vedi box).
La sintomatologia di questo tumore è molto aspecifica e, come detto, non esistono ancora diagnosi precoci: il solo fattore di rischio riconosciuto è l’ereditarietà. «Nel 30% delle pazienti questo tumore è ereditario, dovuto cioè a una mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2», spiega Domenica Lorusso, Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS Università Cattolica Sacro Cuore Roma. «Avere questa mutazione rappresenta un importante fattore di rischio per la malattia. Nel 70% dei casi questo tumore insorge invece senza cause ereditarie specifiche. È probabile che nel giro di qualche anno queste percentuali cambieranno: sappiamo infatti che, oltre ai più conosciuti geni BRCA1 e BRCA2, esiste un’altra serie di geni che possono contribuire all’ereditarietà del tumore ovarico. Si sta cercando di identificarli: più se ne conosce, più probabilità avremo di individuare le donne portatrici della mutazione e proporre strategie di riduzione del rischio prima che la malattia insorga».
Essere portatrici di queste mutazioni non equivale ad avere sicuramente quel tumore, ma ad essere più a rischio di svilupparlo rispetto alle persone non mutate. Attraverso il test genetico è possibile sapere, quindi, se si ha una familiarità o una predisposizione genetica ereditaria al tumore ovarico. «L’esecuzione del test per l’identificazione del gene BRCA mutato ha un enorme impatto in termini di predittività, quindi di risposta terapeutica e di appropriatezza dei percorsi clinici», sottolinea Ornella Campanella, Presidente di aBRCAdabra. «Un tumore BRCA risponde ad alcune terapie farmacologiche in modo diverso rispetto a un tumore ovarico non associato a una mutazione genetica. Quindi, la scelta del trattamento terapeutico target può fare la differenza per la paziente. Inoltre intercettare un primo caso in famiglia consente di mettere in sicurezza i consanguinei positivi. Si crea un effetto domino su tutta la famiglia che permette di poterli far accedere a percorsi personalizzati di prevenzione: per una persona sana significa accedere al test genetico e poi, se positiva, di sottoporsi alla chirurgia di riduzione del rischio o a un protocollo di sorveglianza sia per il tumore dell’ovaio che per la mammella».
La campagna “Tumore ovarico, manteniamoci informate!” e i video-racconti vogliono essere un incentivo per le donne ad accrescere la consapevolezza sul tumore ovarico. «L’informazione è il principale strumento di prevenzione», puntualizza Sandra Balboni, Presidente LOTO Onlus. «Purtroppo non esistono ancora screening mirati per la diagnosi precoce e la conoscenza di questa patologia a livello di popolazione femminile gioca un ruolo importante. Quando nove anni fa ho ricevuto la diagnosi di tumore all’ovaio, sono rimasta sgomenta perché non lo conoscevo. Tutte le donne invece conoscono il tumore del collo dell’utero, che viene diagnosticato con il Pap-test. Per quello all’ovaio, l’unico esame diagnostico è l’ecografia transvaginale. Se riusciremo attraverso la buona informazione a creare una consapevolezza tra le donne, molte diagnosi tardive di tumore ovarico si potranno evitare, migliorando la sopravvivenza e la qualità della vita delle pazienti».
«Le donne non sono informate sul tumore ovarico che, nonostante tutti gli sforzi, resta ancora una patologia poco conosciuta», aggiunge Albachiara Bergamini, Responsabile dell’Associazione “Mai più sole contro il tumore ovarico – Progetto Fondazione Taccia”. «Una Campagna come questa è fondamentale per non far sentire le donne sole e per indurle, in caso di diagnosi, a rivolgersi ai centri specializzati. Il fatto che un personaggio così conosciuto come Claudia Gerini si metta in prima fila per parlare di questo argomento aumenta la probabilità di arrivare a toccare le corde emotive delle donne».
di Paola Trombetta
Tumore all’ovaio: si può scoprire con il Pap-Test
Un’importante novità si prospetta nella diagnosi del tumore all’ovaio, in particolare di quello sieroso che rappresenta l’80% di questi tumori. Una ricerca, condotta all’Istituto Mario Negri di Milano e all’Università Milano Bicocca, e pubblicata sulla rivista scientifica Jama Network Open propone una nuova modalità per l’identificazione di questa neoplasia, utilizzando il Pap test, un esame praticato da un elevato numero di donne con l’obiettivo primario di individuare tumori del collo dell’utero. I ricercatori sono partiti da un’ipotesi: dalle tube di Falloppio (condotti che collegano l’ovaio con l’utero), dove nascono la maggior parte dei tumori ovarici, si possono staccare, in fase precoce, alcune cellule tumorali che finiscono poi nel collo dell’utero, dove possono essere “intercettate” dal Pap Test. In che modo? «Attraverso apposite analisi genetiche, sul materiale del Pap test, che vanno a cercare un gene, chiamato Tp53, alterato nelle cellule di carcinoma ovarico (quindi, spia della malattia)», spiega Maurizio D’Incalci, Direttore del Dipartimento di Oncologia dell’Istituto Mario Negri di Milano, che ha guidato la ricerca. «Le analisi sono state condotte su materiale da Pap test di donne che, in tempi successivi, hanno sviluppato un carcinoma ovarico. Il dato più interessante dello studio è che abbiamo dimostrato la presenza di Dna tumorale almeno sei anni prima della diagnosi di malattia. Questo indica che il test può essere un valido aiuto nella diagnosi e in futuro salvare molte vite umane». È partito di recente uno studio che arruolerà circa 300 pazienti dai principali Centri oncologici italiani di riferimento per questo tumore. P.T.