L’eliminazione dell’Epatite C entro il 2030: è l’obiettivo stabilito dall’OMS, possibile grazie ai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAA) che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi.
In occasione della Giornata Mondiale delle Epatiti del 28 luglio si è fatto il punto sulla lotta a questi virus, conosciuti da oltre 30 anni e potenzialmente curabili. Quest’anno il contesto è mutato e gran parte dell’umanità è impegnata nella lotta alla pandemia da Sars-Cov-2. L’attenzione dei clinici è soprattutto rivolta alle Epatiti B e C che possono avere effetti particolarmente gravi, talvolta letali, e vengono considerate una minaccia per la salute pubblica: se cronicizzano, infatti, provocano complicanze nel tempo anche fatali come la cirrosi e il tumore epatico. Tuttavia, l’epatite B può essere prevenuta con il vaccino e l’epatite C curata con farmaci efficaci e risolutivi. Gli sforzi di questi ultimi mesi per fronteggiare Covid-19 hanno lasciato indietro terapie, prevenzione e diagnostica di tante patologie, compresa l’epatite C. Prima del lockdown, l’Italia aveva discrete possibilità di perseguire l’obiettivo posto dall’OMS di eliminazione dell’Epatite C entro il 2030, pur avendo già un serio problema rappresentato dalla riduzione di accessi alla terapia con farmaci ad azione diretta e alla rilevazione del “sommerso”, valutato in centinaia di migliaia di persone, a cui si aggiungono i soggetti che, pur consapevoli del loro stato infetto, non hanno ancora potuto accedere alle terapie.
«Riprendere il processo di eradicazione dell’Epatite C significa non solo riprendere l’attività di assistenza, ma anche l’impegno volto a favorire l’emersione del sommerso e la presa in carico delle persone con infezione attiva da HCV», sottolinea il Professor Massimo Galli, ordinario di Malattie Infettive, Università degli Studi, Ospedale Fatebenefratelli Sacco di Milano. «Dopo una riduzione di oltre il 90% durante il lockdown, i trattamenti stentano ancora a riprendere con il ritmo precedente, nonostante siano passati quasi 3 mesi dal 4 maggio, considerato l’inizio della Fase 2. Inoltre, la stagione estiva non è favorevole a una rapida ripresa: il personale sanitario è molto provato da quanto accaduto in questi mesi e, in previsione anche di un autunno non facile, dovrà pure prendersi una pausa. Bisogna lavorare affinché si riparta in autunno, abbinando anche un’azione incisiva per la ricerca del sommerso. La Giornata del 28 luglio fornisce lo spunto per affrontare anche la situazione relativa alle altre epatiti. La pandemia, infatti, ha colpito ogni ambito e ha reso meno efficienti anche gli interventi di trattamento e, forse, l’estensione delle procedure vaccinali per l’Epatite B. Per combattere questa malattia è disponibile anzitutto un efficace vaccino, a cui si aggiungono discreti strumenti terapeutici. Bisogna continuare a garantire un’ampia copertura vaccinale, risollevando gli interventi dopo il colpo subito dal sistema sanitario con la pandemia – conclude il Professor Galli – e riallacciare i rapporti con i pazienti, che spesso sono in terapia cronica con antivirali, garantendo il mantenimento in cura».
«L’obiettivo dell’OMS è ancora raggiungibile», dichiara il Viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. «L’Italia è tra i Paesi che finora ha fatto meglio e siamo anche diventati un esempio per altri. Dobbiamo perseguire un importante margine di miglioramento: l’applicazione di una diagnostica più ampia per trovare il “sommerso”. Solo così potremo diventare un modello d’eccellenza e un vero e proprio faro per gli altri».
«L’epatite C è un classico esempio di come la ricerca abbia potuto fare tantissimo per sconfiggere una piaga cronica», ha aggiunto il Professor Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento Prevenzione del Ministero della Salute. «Per far emergere il “sommerso” dobbiamo studiare a fondo le cosiddette “popolazioni speciali”, quali detenuti, tossicodipendenti, migranti, che risultano maggiormente colpite. Il 2030 è vicino e la recente emergenza ha rallentato i progressi realizzati, ma stiamo lavorando affinché gli impegni avviati vengano presto ripresi».
Se HCV e HBV rappresentano minacce incombenti su cui è necessario un impegno profondo e immediato, gli specialisti mantengono alta l’attenzione anche sulle Epatiti A ed E. Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2019 il Sistema Epidemiologico Integrato delle Epatiti Virali Acute, coordinato dall’ISS, ha registrato una riduzione dell’incidenza dell’epatite A rispetto al 2018. Anche i primi approcci di quest’anno rilevano l’assenza di recrudescenza per questa malattia che, peraltro, non cronicizza mai.
Anche l’Epatite E è una malattia virale acuta, molto raramente soggetta a cronicizzazione, con caratteristiche cliniche simili a quelle dell’epatite A. Si stima che 1/3 della popolazione mondiale sia stata esposta al virus e che ogni anno 20 milioni di persone acquisiscano l’infezione, con almeno 600 mila decessi ogni anno. In Italia, negli anni 2007-2018 si è assistito a un trend in continuo aumento dei casi di epatite E. Nel corso del 2019 si è raggiunto un vero e proprio picco con un numero di casi raddoppiato rispetto all’anno precedente (98 casi rispetto ai 49 del 2018). Questo incremento costituisce un campanello d’allarme e impone un monitoraggio attento dell’andamento nei prossimi mesi. «Il virus dell’Epatite E sta acquisendo nuova importanza: è esagerato definirla una minaccia, ma la malattia si sta dimostrando meritevole di attenzione. Recentemente un ceppo di questo virus tipico dei ratti si è dimostrato in grado di causare almeno una decina di infezioni nell’uomo a Hong Kong, un ulteriore segnale che le sorprese sono sempre in agguato», conclude il Professor Galli.
di Paola Trombetta