A volte gli obiettivi e la determinazione professionale nascono da esperienze forti, toccanti, vissute in tenera età. Come la perdita di un’amica del cuore per un tumore importante: il glioblastoma. È la motivazione che ha spinto la dottoressa Francesca Del Bufalo, ricercatrice AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro) all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, a fare della ricerca la sua missione, dedicandovi sforzi, impegno, passione. Con un chiaro intento: cercare di trovare una potenziale cura per quel tumore – il glioblastoma – altamente maligno, il più frequente tumore solido nei bambini e adolescenti, tanto da rappresentare da solo il 25% di tutti i tumori pediatrici, che le ha portato via un affetto importante. Oggi il glioblastoma è trattabile con la chirurgia, interventi delicatissimi vista la sede cerebrale, seguiti da approcci chemio-radioterapici mirati, ma le probabilità di guarigione restano molto basse, all’incirca intorno al 20%. Per chi lavora alla cura della persona, dei piccoli in particolare, la percentuale è inaccettabile e da correggere in meglio, grazie all’identificazione di nuove modalità di trattamento, per offrire a questi bambini un’opportunità terapeutica più concreta e efficace. Come ci racconta, in un’intervista esclusiva, la dottoressa Del Bufalo che ha avviato questo progetto grazie a un finanziamento AIRC, di cui ricorre la Settimana della Ricerca dall’1 all’8 novembre (vedi news Medicina, https://www.donnainsalute.it/news/emergenza-cancro-rai-e-fondazione-airc-rilanciano-la-ricerca-oncologica/).
Come nasce l’idea di questo suo progetto di ricerca?
«Proprio dall’esigenza di identificare nuove possibilità di trattamento del glioblastoma. Negli ultimi 20 anni non ci sono stati avanzamenti terapeutici, tanto che i protocolli di cura sono rimasti identici, a differenza di grandi progressi per altre forme di malattia, determinando quindi per il glioblastoma uno “stallo” anche in termini di prognosi infausta. Per l’oncologo pediatra questo tumore rappresenta la “bestia nera”, sia per le scarse opportunità di cura, sia per l’insoddisfacente risposta alle terapie».
Perché ha pensato a un approccio immunoterapico?
«L’idea parte da un dato scientifico ormai consolidato: è noto che uno dei meccanismi con cui il tumore si sviluppa è legato alla capacità che acquista nel saper sfuggire al controllo del sistema immunitario, che ha il compito di eliminare tutti gli agenti riconosciuti come una minaccia per l’organismo, dai virus, ai batteri fino alle eventuali cellule tumorali. Dunque, obiettivo del mio progetto di ricerca è riuscire a rendere il tumore “visibile” dal sistema immunitario affinché lo possa riconoscere ed eliminare, come qualsiasi altro agente nocivo. Ripristinare il controllo immunologico, riattivandone le capacità intrinseche, si profila come una strategia di cura molto promettente».
La sua ricerca fa leva su due elementi: un adenovirus e un gene. Qual è la ragione di questa scelta?
«La possibilità di poter “costruire” con questi due elementi una strategia terapeutica combinata. Fra i moltissimi virus ho scelto l’adenovirus, il comune virus del raffreddore di per sé innocuo e già noto al sistema immunitario, perché nella sua forma originaria non dà manifestazioni cliniche gravi; un aspetto importante se si pensa all’impiego in pazienti con difese immunitarie ridotte a causa di precedenti terapie. In particolare ho sfruttato un “adenovirus oncolitico”, una versione del virus geneticamente modificata che lo rende capace di replicarsi solo nelle cellule tumorali e di determinarne la morte in maniera selettiva, abbinandolo a un gene per potenziane gli effetti. L’adenovirus oncolitico, che si è dimostrato promettente in studi di laboratorio soprattutto nel trattamento di gliomi dell’adulto, una volta somministrato ai pazienti ha rivelato due punti deboli: l’incapacità di eradicare la malattia e la rapida eliminazione da parte del sistema immunitario. In collaborazione con il Professor Malcolm del Baylor College of Medicine, il Professor Gottschalk del St. Jude Hospital e il Professor Cerullo dell’Università di Helsinki, è nata così l’idea di utilizzare l’adenovirus oncolitico stesso per portare all’interno delle cellule tumorali un gene che stimola la produzione di un particolare anticorpo, in grado di selezionare nel sistema immunitario alcune cellule speciali, i linfociti T, predisposti a eliminare le cellule tumorali. Questo approccio, dai risultati preliminari di laboratorio, sembrerebbe una soluzione “vincente” per potenziare gli effetti dell’adenovirus oncolitico. Ci sarebbero dunque le premesse per pensare che questo approccio sia in grado di rendere le cellule tumorali nuovamente “visibili” ai linfociti T, i killer più efficienti del nostro sistema immunitario, che sarebbero così in grado di eliminarle».
Ritiene che i benefici dell’immunoterapia saranno superiori rispetto a quelli della chemioterapia?
«Non abbiamo dati sufficienti per potere definire la superiorità dell’immunoterapia. Tuttavia sono evidenti alcuni vantaggi: innanzitutto la capacità di questo approccio, grazie al differente meccanismo di azione, di vincere la resistenza alla chemioterapia, offrendo una modalità di cura potenziale per tutti quei bambini che oggi non rispondono o per i quali non sono più efficaci i chemioterapici e in secondo luogo la migliore tollerabilità. Sono infatti possibili effetti di tossicità al momento dell’infusione, ma non a lungo termine, come accade per la chemioterapia, proprio per la diversa modalità di azione. Gli immunoterapici sono selettivi, mentre la chemioterapia è aspecifica e va ad aggredire qualsiasi cellula si replichi in maniera eccessiva, indicendo effetti collaterali importanti, fra cui anche infertilità, nel lungo periodo».
Perché ha deciso di fare ricerca?
«Le motivazioni sono diverse e di diversa natura. A livello personale, ha influito la mia innata curiosità che mi ha sempre spinto ad indagare: una qualità indispensabile per chi vuole fare ricerca. A livello scientifico le innumerevoli sfide quotidiane, il confronto con i grandi successi, ma anche i terribili insuccessi, sono stati un altro incentivo importante. Non ultimo, la necessità di dover disporre di armi terapeutiche nuove, nello specifico contro le patologie neoplastiche dell’età pediatrica, per aiutare e migliorare le aspettative di vita di tutti questi piccoli. Se negli anni Settanta tre bambini su 10 sopravvivevano a una diagnosi di tumore, oggi tre su 4 guariscono completamente: resta quell’uno, ancora pesante, che non ce la fa e a cui va data una opportunità. Questa è la mia speranza, ciò per cui lotto ogni giorno, con forza e determinazione».
di Francesca Morelli