Ogni anno, il 25 novembre, in tutto il mondo si celebra la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2000. Quest’anno, in particolare, il lockdown imposto dall’emergenza Covid-19 ha accentuato le violenze, soprattutto in famiglia. I primi sei mesi del 2020 in Italia è calato il numero degli omicidi, ma è aumentato quello dei femminicidi (dati Ministero dell’Interno). Sono state 59 le donne uccise nel primo semestre del 2020, di cui 53 in ambito familiare: se nel 2019 costituivano il 35% degli omicidi totali, quest’anno l’incidenza si attesta al 45%. Ne abbiamo parlato con Antonella Veltri, presidente di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), la rete nazionale che riunisce 82 realtà sul territorio nazionale, tra centri antiviolenza e case rifugio, che soddisfano i requisiti della Convenzione di Istanbul, che l’Italia ha ratificato nel 2013.
I dati parlano chiaro. La violenza sulle donne durante il lockdown non si è fermata. Cos’è accaduto?
«Il Covid ha fermato tutto, ma non la violenza sulle donne. Anzi, l’obbligo di permanenza a casa e la “convivenza forzata” nelle coppie, ha aggravato la situazione di pericolo che vivono in molte. Già una coppia che funziona non è abituata a stare insieme tutte le ore del giorno, immaginiamo quanto possa essere grande il disagio e il rischio delle donne costrette a rimanere a casa con un compagno violento. Anche in condizioni di normalità è difficile uscire di casa per recarsi nei centri anti-violenza o telefonare per chiedere aiuto, eludendo il controllo dal partner: nelle condizioni attuali tutto diventa più complicato. La prima settimana, dopo i provvedimenti di chiusura, le linee telefoniche dei nostri centri, da Nord a Sud, sono state quasi mute. Del resto, per una donna rinchiusa in casa con un uomo violento, è complicato riuscire a trovare i momenti per telefonare o chiedere aiuto. La dinamica della violenza si caratterizza con un processo di progressivo isolamento da amici e parenti e un forte controllo da parte del maltrattante. L’emergenza Covid ha accentuato questi aspetti. È importante però precisare che la violenza non esplode di punto in bianco: non è certo il coronavirus la causa scatenante».
Ci troviamo all’interno di relazioni in cui la violenza è già presente…
«Quello che è cambiato è la riduzione di quelle “ore d’aria” legate alle esigenze lavorative o alle incombenze quotidiane. Per le donne si sono ridotti i margini d’azione e di reazione per uscire dalla situazione di violenza: questo è il vero problema. Per molte mogli e compagne, accompagnare i figli a scuola o il semplice andare al lavoro, significa sfuggire anche solo per brevi periodi alle violenze del partner maltrattante e alle situazioni di sudditanza con le quali sono costrette a convivere tutti i giorni».
Avete dei numeri a riguardo? Quali le situazioni più frequenti?
«Come Rete nazionale abbiamo effettuato due raccolte dati durante il lockdown. Dai primi di marzo ai primi di aprile i centri D.i.Re sono stati contattati da 2.983 donne, di cui soltanto 836, pari al 28%, sono contatti “nuovi”, donne cioè che si sono rivolte per la prima volta a un centro antiviolenza della nostra rete; le restanti 2.147 erano donne già in contatto con le nostre operatrici. Nel secondo periodo, dal 6 aprile al 3 maggio, sono aumentate sia le donne in generale, che le donne cosiddette nuove. Queste ultime, in particolare, sono passate da 836 a 969. È aumentata anche tra marzo e aprile la percentuale di donne che hanno avuto bisogno di alloggio in casa rifugio, che è salito dal 5 % tra il 2 marzo e il 5 aprile al 6 % tra il 6 aprile e il 3 maggio 2020. Complessivamente nei due periodi di chiusura totale, le richieste di aiuto sono state quasi 6 mila (5.939 per la precisione). Confrontando questi dati con quelli dell’ultima rilevazione statistica che la D.i.Re ha effettuato nel 2018, si nota un incremento di richieste del 79,9%. Queste percentuali confermano che, per chi già subiva violenza, la situazione si è fatta più complessa da gestire. È difficile chiedere aiuto, a causa della presenza assidua in casa del partner violento. Laddove le donne non chiedono aiuto, non significa che non ne abbiano bisogno».
Ecco allora l’importanza dei Centri antiviolenza e di assistenza sul territorio…
«Il lavoro più grosso delle reti di supporto territoriali e nazionali è proprio quello di portare a galla le realtà che vivono nell’ombra, che non sono state ancora denunciate. Per molte donne era impossibile addirittura anche solo immaginare dove potersi trasferire per sottrarsi alla relazione con il convivente. Molte hanno anche pensato che i centri antiviolenza fossero chiusi. Proprio per questo abbiamo realizzato una campagna di informazione, per diffondere il messaggio di vicinanza e ricordare che, in situazione di isolamento domiciliare, in caso di difficoltà non sono sole ma possono contare sulle case rifugio e sui centri antiviolenza. E dopo i primi sei mesi i telefoni hanno squillato di nuovo, anche solo per chiedere informazioni. Queste telefonate non vanno sottovalutate: è molto difficile che una donna parli apertamente della violenza subito al primo colloquio; ci vogliono diversi contatti prima di iniziare a raccontare, quando aumenta la fiducia e la consapevolezza».
E cosa raccontano le donne maltrattate?
«Quando si parla di violenza domestica, non si intendono solo botte e percosse, ma anche quelle violenze a livello economico e psicologico. Da non sottovalutare che la pandemia ha segnato una battuta d’arresto senza precedenti per la condizione femminile, rendendo le donne maggiormente vulnerabili sul piano economico. Oltre al calo delle chiamate, c’è stato un calo delle denunce del 20-30%: i primi 20 giorni di marzo del 2019 ne contavano 1.157; nello stesso periodo di osservazione di quest’anno, sono appena 652. Ma è facile ipotizzare che ciò non sia dovuto a una reale diminuzione dei reati, ma principalmente a due motivazioni. La prima è da ricondurre alla difficoltà di sfuggire al controllo del maltrattante. La seconda è il percorso difficile, pieno di ostacoli, per chi denuncia, che si trasforma spesso nell’ennesimo calvario: nelle aule dei Tribunali la parola delle donne non viene creduta, la loro vita privata giudicata. Questa è una motivazione generale, che ovviamente prescinde dal lockdown».
Come state lavorando in questi mesi?
«Nonostante le restrizioni determinate dal momento contingente, i centri hanno proseguito l’attività, erogando tutti i servizi di supporto, con modalità di colloquio telefonico o via skype. Nei casi in cui il contatto diretto con l’utente si è reso necessario, questo è avvenuto nel rispetto di tutte le misure di sicurezza imposte dalla normativa. Per quanto riguarda la questione delle case rifugio, fare nuovi inserimenti è stato più complicato, a causa del rischio contagio. C’erano centri che avevano una stanza per la quarantena da 3 posti. Altri centri durante il lockdown si sono spinti a cercare di individuare soluzioni di ospitalità temporanea (albergo, case in affitto) per l’isolamento di queste persone».
La Legge del 19 luglio 2019, n. 69, conosciuta come “Codice Rosso”, ha introdotto due importanti provvedimenti a tutela delle vittime: l’allontanamento urgente dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento che sanziona il maltrattante inadempiente, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Le ritiene misure preventive efficaci?
«Sono misure sicuramente importanti per garantire immediata protezione alle vittime, di fatto ignorate nella prassi. Stiamo chiedendo che questa legge venga applicata: non riteniamo giusto che sia la donna a doversi allontanare con i bambini dal domicilio, soprattutto in emergenza sanitaria, ma debba essere allontanato l’uomo che esercita la violenza. La norma in questione ha sollevato tante perplessità anche tra gli operatori del diritto, soprattutto in considerazione del fatto che non sia stato conferito alle Forze dell’Ordine un adeguato potere di intervento: può infatti essere applicata solo su richiesta del P.M. Se il legislatore avesse inserito anche la possibilità di arresto immediato, allora sarebbe stata veramente efficace. Del resto il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha bocciato l’Italia, responsabile di ostacolare l’accesso alla giustizia alle donne vittime di violenza. Strasburgo ha valutato negativamente i dati parziali e nello stesso tempo allarmanti sui tempi di risposta dei Tribunali italiani alle denunce, sul numero di procedimenti penali avviati, sulle assoluzioni e sull’eccessivo numero delle archiviazioni. Per questo il nostro Paese dovrà fornire, entro il 31 marzo 2021, le informazioni sulle misure adottate per garantire un’adeguata valutazione del rischio delle donne che denunciano violenza e dimostrare la concreta applicazione delle leggi. L’Italia è stata anche sollecitata a fare di più per la prevenzione della violenza e per garantire la presenza dei Centri antiviolenza».
Servono risorse, denaro: sono stati stanziati 30 milioni di euro per i centri antiviolenza. Che impatto può avere questa misura? Quali finalità dovrebbero avere questi centri?
«In questo periodo di emergenza i centri stanno operando con le casse in rosso. I 30 milioni di euro sono quelli già stanziati per il 2019 e non sono stati ancora consegnati. La ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia, considerando la situazione di emergenza Covid, ha deciso di far arrivare questi soldi, benché le regioni debbano ancora inviare la programmazione necessaria. Dividendo questo importo per tutti i centri italiani, la cifra che arriva a ciascun centro è modesta. Servono insomma ulteriori risorse e la condizione affinché gli interventi possano essere efficaci, è che siano tempestivi, ora più che mai. Occorre una continuità di finanziamento, perché la violenza è un fenomeno quotidiano e diffuso. A questo bisognerà aggiungere strumenti che aiutino le donne a trovare lavoro, per stimolare l’acquisizione di un’autonomia economica e professionale. I centri antiviolenza non sono servizi, ma luoghi che accompagnano la donna in un percorso che inizia con l’accoglienza telefonica e finisce con il recupero della sua vita, in piena autonomia. E devono prestare la loro opera in maniera gratuita a tutte le donne e non diventare servizi a pagamento, per la consulenza legale o psicologica».
“Perché non lo lasci?” Questa domanda viene spesso rivolta alle donne in una situazione di maltrattamento. Ci sono donne che denunciano e poi ritrattano: il “virus” della violenza si insinua in modo subdolo nella dinamica di coppia. Come combatterlo?
«Il percorso di ricerca di aiuto può essere lungo e difficile. La presenza di un legame affettivo e di intimità può rendere particolarmente difficoltoso per la donna decidere di uscire dalla violenza. Esistono fattori culturali e psicologici che possono persino convincere la donna a giustificare l’autore delle violenze e tollerarne gli abusi. I motivi per cui una donna può essere titubante o timorosa all’idea di troncare la relazione sono molteplici: dalla paura per la propria incolumità o di dover affrontare il maltrattatore nel corso del processo, alla mancanza di sostegno esterno (familiare e dei servizi istituzionali), al timore di non essere credute. Come ripetiamo da tempo, i soli strumenti normativi non bastano. Le radici della violenza stanno nella natura patriarcale che ha dato forma alla società che conosciamo, con norme sociali che generano atteggiamenti di possesso, controllo ossessivo, restrizione delle libertà di scelta della donna. Una cultura che disconosce il diritto della donna all’autonomia, indipendenza, affermazione e persino alla sua stessa esistenza. Pregiudizi sessisti che persistono anche nei tribunali. Occorre intervenire con un approccio “sistemico” multidisciplinare, attraverso le molte realtà coinvolte nella lotta a questo fenomeno: centri antiviolenza e case rifugio, servizi socio-sanitari, psicologi/psicologhe, forze dell’ordine, magistratura, avvocati, agenzie di educazione, mass media».
di Cristina Tirinzoni
I numeri per chiedere aiuto
A livello nazionale è attivo h24 il numero telefonico gratuito antiviolenza 1522; è un servizio pubblico promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Al numero rispondono operatrici specializzate che accolgono le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. La Polizia di Stato ha messo a disposizione anche l’app YOUPOL, già attiva per segnalare episodi di spaccio e bullismo, anche per i reati di violenza tra le mura domestiche. Inoltre, anche in Italia è stata lanciata l’iniziativa (già sperimentata in Francia) “mascherina 1522“, una frase che le donne in difficoltà, per problemi di violenza domestica, possono utilizzare nelle farmacie per ricevere informazioni o attivare una forma di aiuto. Si tratta di un accordo tra i centri antiviolenza e la Federazione Farmacisti.