La medicina narrativa per “ascoltare” la depressione

Centocinquantamila casi in più, ottantacinquemila morti che al 20 settembre 2020 superano quelli registrati negli ultimi cinque anni. Sono i numeri della depressione che pesano sull’Italia: conseguenza della prima e seconda ondata di Covid-19, della crisi pandemica socio-economica emergente, segnata anche da un sentimento di fragilità psico-emotiva. La “tempesta perfetta”, come la definiscono gli esperti. «In Italia – commenta Claudio Mencacci, Presidente SINPF (Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia) e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Fatebenefratelli-Sacco di Milano – prevediamo fino a 200 mila casi in più di depressione generata dalla crisi economica, mentre a livello mondiale si stima che un milione e mezzo di persone siano a elevato rischio di suicidio». Soprattutto le categorie più fragili: i giovani, intorno ai 30 anni, privati delle loro sicurezze, delle progettualità per il futuro, del lavoro, con studi instabili, interruzioni delle relazioni sociali, disoccupazione; a seguire le donne, le più gravate dalla pandemia in termini di salute e lavoro, tanto che le Nazioni Unite hanno pubblicato il report “The impact of Covid-19 on women”. «Durante il periodo di emergenza sanitaria – dichiara Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda (Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere) – il rischio di perdere il lavoro per le donne è sensibilmente aumentato, passando da un tasso di occupazione femminile del 50.1% dello scorso anno a un calo distanziato di 17.9 punti percentuale da quello maschile, a cui si somma un aumento del carico di gestione domestica e dei figli durante il lockdown e l’incremento dei casi di violenza domestica». Contesti che hanno fatto esplodere il sentimento di solitudine, con effetti anche estremi, favoriti dalla “sindrome della capanna”, ovvero la volontà della persona di trincerarsi, prolungando la permanenza nella propria comfort zone, lontana da situazioni di tensione ed evitando i contatti interpersonali se non quelli strettamente indispensabili.

«Il periodo di isolamento sociale indotto da Covid-19 – spiega Maurizio Pompili, Professore di Psichiatria all’Università La Sapienza, Presidente della Società Italiana Suicidologia – rappresenta un fattore di rischio al comportamento suicidario la cui prevenzione richiede risposte interdisciplinari urgenti, che vadano oltre le politiche sanitarie e le pratiche generali della salute mentale, finalizzate a riconoscere precocemente possibili segnali di allarme, come il sonno alterato o anche disfarsi di oggetti cari e, dunque poter comunicare e gestire le crisi psico-emotive in maniera efficace. A partire dalla capacità del professionista di “sintonizzarsi” sulla sofferenza della persona, ponendo cioè domande sensibili, spendendo minuti in più per dialogare e ascoltare il vissuto della persona, entrando così in punta di piedi nel suo tessuto sociale». In questa direzione, un valido strumento di aiuto e cura per il medico e per il paziente è rappresentato dalla “Medicina Narrativa” che permette di conoscere, grazie appunto alla narrazione, i differenti punti di vista del protagonista e dei diversi attori che si integrano, partecipano, intervengono nel percorso di malattia e nel processo di cura e poter costruire una “storia di cura” personalizzata. La Medicina Narrativa, che riporta al centro il paziente, trova efficace applicazione nella prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione di una specifica malattia, depressione compresa, ma anche nella valutazione dell’aderenza al trattamento e della sua efficacia, fino a poter misurare e prevenire il burn-out (il carico stressogeno) degli operatori e dei caregiver che accompagnano il paziente. «In questo contesto – aggiunge Mencacci – le parole diventano fondamento nel portare cura, fare del bene, dare futuro, soprattutto in un’epoca, come quella attuale, in cui il 75% dei servizi di consulenza psicologia e psichiatrica è stato effettuato via internet, con la necessità da un lato di poter testare l’efficacia della cura e dall’altro di non perdere l’empatia con il paziente».

Come mantenere questa dimensione umanizzata di vicinanza, dietro uno schermo, su una piattaforma virtuale? Occorre creare il contesto ideale, avvalendosi anche degli organi di senso: «John Launer, membro “dell’Editorial Board del Chronicle of  Narrative Medicine” e consulente alla Tavistock Clinic di Londra – spiega Luigi Reale, Responsabile dell’Area Sanità e Salute di  Fondazione ISTUD – insegna che per preservare l’empatia a distanza occorre preoccuparsi di alcuni aspetti chiave tra cui l’ambiente. Per creare vicinanza è bene scegliere ad esempio un salotto, un luogo vissuto e personale, in cui non ci siano elementi di distrazione, come quadri colorati o foto; utilizzare il corpo come mezzo espressivo, in particolare il sorriso e il movimento delle mani, che devono essere più grandi e aperte in quanto rimpicciolite dallo schermo. Inoltre è bene mantenere comportamenti che si sarebbero avuti in presenza, come chiedere alle persone, qualora l’incontro fosse stato di gruppo, di presentarsi ricorrendo a tecniche per rompere il ghiaccio: chiedere ad esempio cosa potrebbe farli gioire in quel momento, o favorire la concentrazione, dal momento che mantenersi vigili e attenti dietro uno schermo non è sempre facile. È possibile accogliere nell’incontro anche i familiari se necessario e favorire il silenzio, soprattutto all’inizio della sessione, per poi dare a ciascuno il tempo e lo spazio per manifestare le proprie emozioni. Infine non bisogna tralasciare di esprimere ciò che manca nel colloquio a distanza, con frasi esplicite come “Mi piacerebbe abbracciarti” o “Mi dispiace non poterti tenere la mano in questo momento”».

«L’utilizzo appropriato della medicina narrativa – conclude Maria Giulia Marini, Direttore Scientifico dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD e presidente di EUNAMES, European Narrative Medicine Society – è una risorsa che crea il punto di svolta da cui ripartire e ricostruire un tempo nuovo, andando oltre lo slogan della nuova normalità, mettendo invece in campo tutte le forze empatiche e intelligenti che poggiano su competenze specifiche». E questo si ottiene introducendo anche nella medicina narrativa tutte quelle dimensioni dell’esperienza da sempre parte della pratica clinica: la riflessione su sé stessi, sull’altro e assieme all’altro, il senso di leggerezza, lo stupore validi e necessari per “proteggere” il benessere mentale e in generale la salute pubblica. Sono solo alcuni degli spunti interessanti al valore di questo strumento di cura, raccolti nel volume: “Medicina Narrativa, un punto di svolta per prendersi cura della depressione” (Ed. Effedì), patrocinato da SINPF, Società Italiana di Psichiatria (SIP) e Fondazione Onda, scritto con Fondazione ISTUD e reso possibile dal contributo di Lundbeck Italia, da sempre attenta alla salute mentale. Per informazioni sul libro e sul progetto “Fuori dal blu”, anch’esso dedicato alla depressione e promosso lo scorso anno:  https://www.medicinanarrativa.eu/fuori-dal-blu .

di Francesca Morelli

Il cervello soffre di solitudine e si ammala

La nostra mente ha “fame” di relazioni, se resta senza deperisce, perde la sua linfa vitale e si ammala di solitudine. La cui prima manifestazione è spesso la depressione. Lo confermano non solo le conseguenze di Covid- 19, dove il distanziamento sociale in un caso su 5 è stato la miccia dell’insorgenza di stati depressivi, ma anche i risultati di un recente studio pubblicato su “Nature Neuroscience”, presentato in occasione del XXII Congresso nazionale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (SINPF). La ricerca evidenzia che la solitudine accende le stesse aree di una piccola parte del cervello, la substantia nigra, attivate dalla fame di cibo: come il cibo è il nutrimento per il corpo, così le relazioni sociali lo sono per la mente.

«La solitudine – spiega Claudio Mencacci, co-presidente della SINPF e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano – è veleno per la nostra salute: indebolisce il sistema immunitario, favorisce la comparsa di molte malattie, ma soprattutto compromette il benessere mentale. Abbiamo un cervello sociale che ha bisogno di contatti umani proprio come abbiamo necessità di cibo per vivere». Quando è “a digiuno” del contatto con l’altro, il cervello soffre e lo desidera disperatamente, tanto che il distaccamento dal tessuto socio-relazionale, per contenere la pandemia di Covid-19, sta marcando gli effetti “da solitudine” nelle fasce d’età che per motivi diversi tendono più spesso ad allontanarsi dal resto del mondo: gli anziani e gli adolescenti. Secondo il Rapporto ISTAT 2018, il 40% degli over 75 non ha nessuno a cui rivolgersi in caso di bisogno e proprio i più anziani sono ora costretti a stare lontani dagli altri per proteggersi dal contagio, mentre per gli adolescenti, complici sono stati la didattica a distanza e le relazioni sempre più spesso soltanto virtuali. «Purtroppo la mancanza di contatti umani, oltre a renderci “affamati” di conversazioni, strette di mano e abbracci – aggiunge Mencacci – ha conseguenze gravi sul benessere mentale. Un’altra indagine fra gli over 50, pubblicata su “The Lancet Psychiatry”, ha dimostrato che almeno un caso di depressione su 5 è direttamente provocato dall’isolamento e dalla solitudine che ne derivano. Le regole di distanziamento fisico e sociale imposte stanno fungendo da detonatore per il malessere psichico, che va riconosciuto, diagnosticato e curato prima che trascini i pazienti in una spirale di sofferenza». Con numeri previsti in crescita: già oggi, in circa 600 mila dei 3 milioni di persone con depressione, l’isolamento potrebbe essere il motivo scatenante o aggravante del disagio mentale. Fondamentale è e sarà, il ruolo “diagnostico” del medico di medicina generale, a cui è affidato il riconoscimento dei primi segnali di disagio mentale e, in caso di depressione, il coinvolgimento dello specialista. «Oggi possiamo intervenire efficacemente con farmaci che riescono a migliorare la qualità della vita dei pazienti con depressione – conclude Matteo Balestrieri, co-presidente della SINPF e professore ordinario di Psichiatria all’Università di Udine – anche nelle fasce d’età più critiche come la vecchiaia e l’adolescenza, grazie agli enormi progressi della ricerca in neuropsicofarmacologia degli ultimi anni. Tuttavia le terapie devono essere prescritte dopo un’accurata diagnosi e gestite dello specialista assieme al medico di famiglia, senza mai cedere al fai da te».  F.M.

 

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