Ha suscitato sconcerto e indignazione il video di Beppe Grillo, in “difesa” del figlio Ciro, “presunto stupratore” di una ragazza di 19 anni, insieme a tre amici, nella casa di proprietà a Porto Cervo in Sardegna, un fatto accaduto a luglio di due anni fa, per il quale nessuno è stato finora rinviato a giudizio. Eppure la giovane aveva denunciato dopo 8 giorni la violenza. Un tempo considerato da Grillo “troppo lungo” per rendere credibile la gravità dell’atto. Una precisazione è d’obbligo. Forse il fondatore del Partito penta-stellato, che si è fatto garante di battaglie per la tutela dei diritti delle donne, non ricorda che il 19 luglio 2019 è stata approvata la legge, nota come Codice Rosso, a tutela delle donne che subiscono violenza, che allunga a 12 mesi il tempo per poter sporgere denuncia. A ricordarlo è la stessa deputata grillina, Federica Daga che ammette in pubblico di aver aspettato ben 6 mesi prima di denunciare le violenze subite dall’allora compagno. Un atto di coraggio, che richiede forza e determinazione, che non tutte le donne hanno. E quelle che si convincono a denunciare, devono poi affrontare anni di sofferenze nelle aule dei tribunali, in cui rivivono un trauma che vorrebbero invece dimenticare…
Con l’aiuto della dottoressa Filomena Rosiello, psicoterapeuta, copresidente della Casa delle Donne e responsabile dello Sportello Aiuto Donna della Zona 5 di Milano, in viale Tibaldi, 41 (366-5273726), cerchiamo di capire le dinamiche psicologiche che intervengono quando una donna subisce violenza e l’iter difficile che deve affrontare in caso di denuncia.
Quale reazione si scatena dopo una violenza, sia essa sessuale, fisica o psicologica?
«La maggior parte delle donne prova un senso di annientamento, di impotenza, di paralisi che spesso impedisce loro di reagire. Per non parlare della vergogna che a volte le scoraggia dal denunciare. Ci sono anche casi di negazione completa della violenza, con rimozione del trauma, che riaffiora però sotto forma di disagio psico-somatico, fino a provocare vere patologie come attacchi di panico, disturbi alimentari, problematiche della sfera sessuale: per poterle risolvere occorrono lunghi anni di psicoterapia. E poi ci sono le donne che “sopportano” in silenzio le violenze, soprattutto in ambito domestico, anche per anni, nella speranza/illusione che il partner prima o poi si ravveda. Sono poche le donne che invece si ribellano e provano una tale rabbia che le spinge a reagire e denunciare subito, affrontando le conseguenze di interrogatori estenuanti e processi che purtroppo si prolungano per anni».
Quali difficoltà devono affrontare le donne che decidono di denunciare una violenza?
«La prima è il timore di non essere credute, come purtroppo spesso avviene anche nei tribunali, o di essere addirittura derise in un contesto sociale che a volte difende il “presunto violentatore”. E così se una donna accetta di salire in auto con un uomo o di andare a casa sua, anche solo come amica, non può permettersi poi di considerare violenza un rapporto sessuale avuto contro la sua volontà, perché tutto sommato è andata da lui… Come se la violenza fosse giustificata dall’aver semplicemente accettato di salire dall’uomo. “Se è venuta in casa, vuol dire che era consenziente di poter avere rapporti sessuali”: una frase ricorrente negli atti processuali, ripetuta forse anche dal figlio di Grillo, che considera una semplice “ragazzata” i rapporti sessuali avuti. Senza considerare che invece la giovane in questione non ne voleva proprio sapere, ancora peggio se era sotto l’effetto di alcol o droghe. Motivo per cui ha deciso di denunciare. Purtroppo, nel passato ci sono state anche sentenze che hanno scagionato i violentatori, a prescindere dalla non consensualità della vittima. Ricordiamo l’episodio che aveva suscitato molto scalpore, avvenuto anni fa, dell’assoluzione completa di una violenza nei confronti di una ragazza che aveva avuto il “torto” di indossare i jeans…».
Come giudica l’attuale giurisprudenza in merito alla violenza contro le donne?
«Oggi per fortuna la giustizia sembra essere più attenta e scrupolosa nel giudicare e condannare le violenze contro le donne. Dopo tante battaglie condotte anche a livello legislativo, soprattutto da chi è impegnata nelle istituzioni, è finalmente passato il concetto che la violenza è un “reato contro la persona, non contro la morale”, una tendenza che prima “giustificava” certi atteggiamenti considerati al limite offensivi, ma non certo reati. Il problema attuale sono ancora i lunghi interrogatori nei tribunali, con domande spesso insinuanti e offensive per la donna, che deve rivivere il trauma della violenza e spesso si vergogna e si sente quasi “colpevole” di aver denunciato. Manca a mio avviso il supporto psicologico che potrebbe invece aiutare l’interessata ad essere più lucida e determinata nel ricordare anche particolari importanti che magari, nell’impatto emotivo iniziale, vengono trascurati. In più la persona che denuncia non è per nulla tutelata ed è spesso esposta al rischio di ritorsioni da parte dell’accusato. I provvedimenti di allontanamento del presunto violentatore vengono spesso disattesi e non sono infrequenti i casi di ritorsioni e vendette, che a volte sono addirittura sfociati in femminicidi».
Cosa si può fare per evitare che una denuncia si trasformi in un boomerang per la donna?
«Innanzitutto, un supporto psicologico potrebbe aiutare la persona che subisce violenza a metabolizzarla e avere gli strumenti per sostenere un confronto con il violentatore nel lungo iter di un processo. È inoltre indispensabile garantire una maggiore protezione alle donne, allontanandole dal violentatore, offrendo un luogo sicuro dove poter vivere in totale tranquillità con i figli, per lo meno in attesa del giudizio e della condanna, che scongiurerebbe definitivamente il pericolo. È poi necessario aiutare la donna a recuperare la fiducia in sé stessa, coinvolgendola in gruppi di auto-aiuto, ma anche in progetti concreti di lavoro. Alla Casa delle Donne, ad esempio, in seguito a un progetto di empowerment per donne che stanno uscendo da una violenza domestica, un piccolo gruppo ha iniziato a creare abiti e accessori. La nostra Scuola di Italiano accoglie anche ragazze che si trovano in comunità protette. E gestiamo pure uno sportello di orientamento a cui si rivolgono le donne, molto spesso vittime di violenze, per cercare un lavoro o un alloggio. Sono piccole iniziative con le quali si può davvero dare un grande aiuto alle donne in difficoltà, sempre più numerose in una città come Milano, soprattutto in questo periodo di lockdown che costringe molte a subire ancora di più le violenze tra le mura domestiche. Per loro in particolare è stato istituito il numero di soccorso 1522 e i singoli centri di aiuto hanno numeri riservati e sportelli di ascolto, dove si trova sempre qualcuno disposto ad aiutarle».
di Paola Trombetta