A discapito di numeri e statistiche dei “bollettini Covid”, sono le donne ad avere pagato i costi più alti della pandemia: individuali, familiari, sociali, professionali, sanitari. Lo conferma una recente indagine “Donne, Covid e Lavoro” su un campione di 609 donne con un’età media di 39 anni, distribuito equamente su tutto il territorio nazionale, di cui il 39% con un’esperienza diretta con Covid (lutti compresi), il 58% con figli, condotta da Fondazione Onda (Osservatorio Nazionale sulla Salute della donna e di genere), in collaborazione con Didael KTS e l’Istituto di ricerca Elma Research. Sei donne su 10, a causa della pandemia, hanno modificato “a lungo termine”l’attività lavorativa: si sono adattate allo smartworking (32%), riduzione dell’orario lavorativo (19%), cassa integrazione (16%), sospensione dell’attività (14%), passaggio al part-time (10%). Seppur siano poche (5%) le donne che hanno perso il lavoro, il 46% si sente “precaria”, soprattutto se giovane, residente al Sud, senza tutela di un contratto a tempo indeterminato, impiegata nei settori del turismo, ristorazione e sport. Per il 40% delle lavoratrici sono sensibilmente aumentate le difficoltà economiche, attribuite alla nuova vita professionale, decisamente peggiorata per il 30% delle intervistate. Non va meglio sotto il profilo della salute, trascurata da 7 donne su 10 nel periodo della pandemia, con punte dell’86% in caso di patologie croniche.
«La nostra indagine – dichiara Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda – conferma che le donne sono le prime vittime della pandemia, indipendentemente se malate o meno. L’impatto sulla salute fisica e psichica del Covid-19 è stato pesante: il 76% delle donne ha trascurato la propria salute, rinunciando a screening preventivi e a visite di controllo, hanno sperimentato disturbi del sonno, tristezza e pianto, pensieri negativi, bassa autostima e apatia. Fra coloro che hanno subito difficoltà economiche importanti, quasi 9 su 10 hanno sofferto di almeno un disturbo psichico per un periodo prolungato, anche dopo l’emergenza, gestiti con rimedi di varia natura (66%): naturali e/o omeopatici (46%), farmaci da banco (18%) o prescritti (13%), terapia psicologica individuale o di gruppo (12%)».
Affermazioni che trovano conferma anche da dati scientifici, ricerche condotte sul campo: «Uno studio su oltre 8100 italiani- aggiunge Claudio Mencacci, Presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia – ha mostrato durante la pandemia un notevole aumento dei disturbi affettivi comuni, in particolare della sintomatologia depressiva (17%) e ansiosa (20%). Secondo recenti indagini conoscitive, lo smart-working è causa di un aumento di 1 ora di lavoro al giorno (48%), di ansia da timore di perdita del lavoro (35%) in alcuni settori professionali, maggiormente colpiti dalla pandemia, con conseguenze psichiche pesanti: “workalcohol”, un’assuefazione al lavoro che non vede più un distacco tra il mondo professionale e il mondo privato; “technostress”, generato dall’uso eccessivo di Pc e Device elettronici e dalla riduzione tra lo spazio, sia fisico sia mentale, che rende la persona iperconnessa; “sindrome da pigiama” che priva della voglia e degli stimoli di prepararsi per uscire e entrare nel contesto sociale. Le donne sono le più esposte a questi eventi e cronicamente sotto pressione a causa dell’incremento del multitasking, senza venir meno ai propri obblighi e compiti familiari di mogli, madri e caregiver». Ma non solo le donne pagano un prezzo “diverso” anche in termini di esiti e superamento della malattia: «Nella valutazione dei pazienti dimessi dopo Covid – precisa Elena Bottinelli, Amministratore Delegato dell’Ospedale San Raffaele di Milano – abbiamo osservato differenze di genere che sono opposte rispetto a quelle emerse nei pazienti ricoverati con malattia acuta. Le donne, nonostante avessero un’infezione di minore gravità, hanno sofferto più complicanze, soprattutto ansia e depressione, anche a distanza di mesi dalla dimissione. Oggi, cominciando meglio a capire i meccanismi alla base di questi disturbi, possiamo offrire terapie psicologiche e farmacologiche, personalizzate e quindi più efficaci. Importante è l’aiuto della telemedicina che permette una relazione più efficace e duratura coi curanti». «L’auspicio è che questo nuovo modo di fare medicina che consente al medico di lavorare “insieme” ad altri medici, in multidisciplinarietà, a favore del paziente in cui la tecnologia integra, ma non si sostituisce al medico, possa proseguire anche nel post pandemia», afferma Ovidio Brignoli, Vice Presidente SIMG (Società Italiana di Medicina Generale). Meno burocrazia per il medico e più tempo e qualità dell’assistenza per il paziente».
Allora, il 2020 e inizi 2021 sono stati anni totalmente neri o c’è qualcosa da salvare? L’emergenza sanitaria ha insegnato un nuovo modo di lavorare e la tecnologia si è rivelata un’ottima alleata nella gestione quotidiana, a partire dalla salute: il 50% di donne – secondo l’indagine – ha imparato ad usare nuove tecnologie e strumenti di lavoro, il 100% ha utilizzato almeno una App o un servizio a supporto della salute per effettuare prenotazioni o ritirare referti, con risvolti benefici anche per la professionale e le relazioni: 73% di donne ritiene la tecnologia fondamentale e efficace per lavorare in modalità smartworking, e il 69% la ritiene uno strumento valido per “restare in contatto” e mantenere relazioni soddisfacenti, o per fare formazione tanto che 61% di donne crede nella tecnologia per dare continuità all’istruzione di bambini e ragazzi. «Mai come nell’ultimo anno la tecnologia, spinta dalle esigenze della pandemia – precisa Gianna Martinengo, Fondatrice e Presidente Didael KTS – Ideatrice Women&Technologies – ha ridefinito lo spazio fisico, geografico, sociale e cognitivo nel quale ci confrontiamo. Questo cambiamento merita di essere studiato, specie in riferimento alle donne italiane, gravate in questo momento storico, oltre che dagli impegni familiari, dalle aumentate difficoltà professionali di cui non possiamo non farci carico e che sono lo specchio di un Paese non ancora in grado di valorizzare il ruolo femminile».
di Francesca Morelli
Anche i bambini sono colpiti da “stress da pandemia”
Non solo donne. Le più recenti stime attestano che anche i bambini, gli adolescenti e i giovani meno preparati a reggere l’impatto, sono stati travolti dall’onda pandemica. Ed ora insorgono i disagi che manifestano con varie reazioni, come evidenziamo gli esperti dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, che impattano sui comportamenti e la qualità della vita. Ecco i campanelli d’allarme a cui mamma e papà devono fare attenzione per individuare precocemente lo stress da pandemia nei propri figli:
- Scarsa qualità del sonno: riposo disturbato, soprattutto da episodi di “terrore notturno” che si ripetono spesso nel tempo e che, alla lunga, possono ostacolare la vita del piccolo.
- Ritorno a un linguaggio infantile o insorgenza di balbuzie intermittenti: possono denunciare un disagio emotivo. Gli esperti consigliano di contattare il pediatra e fissare una visita specialistica se il bambino a 18 mesi non batte le mani, non fa ciao; se tra 3 e 6 anni ha periodi lunghi di balbuzie, che non si risolvono da soli, associati ad altri segnali di stress come i disturbi del sonno; se non parla a scuola in questa fascia d’età.
- Schizzinoseria: il rifiuto nei bambini verso alcuni tipi di cibo o negli adolescenti il cambiamento radicale delle abitudini alimentari possono rappresentare una spia meritevole di essere discussa con il pediatra.
- La DAD: può aumentare problemi di attenzione, concentrazione e apprendimento, può diminuire l’interesse per lo studio, con ripercussioni anche sull’emotività divenuta, soprattutto in adolescenza, più instabile, fragile e fonte di disagio psicologico o di “somatizzazione” con la comparsa di dolori addominali o emicranie, irritazione, rabbia, esplosioni di aggressività.
- Autolesionismo: infliggersi intenzionalmente dolore fisico e lesioni con graffi, tagli o bruciature sulla pelle, esporsi“volontariamente” a situazioni di pericolo, ma anche cambiamenti repentini d’umore e riservatezza nel mostrare alcune parti del corpo, anche quando è caldo, possono essere indicatori da non sottovalutare.
Insomma, in presenza di questi sintomi o di altri sospetti, è bene parlarne con il proprio medico curante. F.M.