La malattia cardiaca a 360° è stata al centro della 38a edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto”, dal 7 all’10 ottobre 2021 a Fortezza da Basso – Firenze, la seconda edizione in “era di pandemia” e la prima dall’avvento della campagna vaccinale. Fattori di rischio, stile di vita, prevenzione, nuove cure e metodi diagnostici, ma anche vaccinazioni contro il Covid per le persone affette da cardiopatie. In questa edizione post-pandemica si sono affrontate anche le nuove problematiche legate ai vaccini e alle sindromi da long-Covid che hanno a volte messo in sofferenza il cuore. Abbiamo approfondito tutte queste tematiche, con un’attenzione particolare alle donne, con la professoressa Eloisa Arbustini, presidente del Comitato scientifico del Congresso e direttore del Centro ricerche per le malattie genetiche cardiovascolari dell’IRCCS Fondazione Policlinico San Matteo di Pavia.
In questi mesi di pandemia, la vaccinazione contro il Covid ha creato molti allarmismi, soprattutto dopo alcuni decessi di giovani donne per trombosi con il vaccino Astra Zeneca e la comparsa di miocarditi e pericarditi con i vaccini a m-RNA, Pfizer e Moderna. Qual è il suo commento a proposito?
«È indubbio che qualche problema i vaccini contro il Covid lo hanno causato, anche perché si tratta di vaccini nuovi che hanno avuto intervalli di tempi brevi per essere testati. Per fortuna nel nostro centro per le malattie genetiche cardiovascolari d Pavia non abbiamo avuto casi gravi, ma solo rari episodi di trombosi, in alcuni soggetti prevalentemente maschi, che però si sono risolti nel giro di pochi giorni con terapia a base di eparina. Anche sulle miocarditi e pericarditi sono stati registrati casi in alcuni giovani maschi in diversi studi israeliani e scandinavi. Ma questo, a mio parere, non giustifica la decisione presa di recente dalle autorità sanitarie svedesi di sospendere l’uso dei vaccini a m-RNA nei giovani maschi di età inferiore a 30 anni. Anche perché sicuramente i benefici del vaccino contro il Covid sono di gran lunga superiori ai rischi di contrarre l’infezione, con tutte le conseguenze che potrebbe provocare, anche a livello cardiaco».
Si è parlato molto di conseguenze da long-Covid che, in alcuni casi, hanno interessato anche il cuore…
«Certamente l’infezione da Sars Cov 2 scatena lo sviluppo di fattori infiammatori, come le citochine, che possono interessare non solo i polmoni, ma anche il cuore: da qui il rischio di sviluppare miocarditi e pericarditi. Le citochine agiscono anche sulle pareti dei vasi sanguigni e possono scatenare la formazione di trombi e la comparsa di fenomeni come stroke e scompenso cardiaco. Si è visto inoltre anche un interessamento neuronale, con la comparsa di deficit motori e cognitivi che possono permanere per lungo tempo. Per questo la vaccinazione diventa ancor di più uno strumento protettivo, ma deve essere “personalizzata”, valutando attentamente l’anamnesi del soggetto che si sottopone al vaccino. Emblematico e doloroso il caso della giovane di Genova, che è morta per trombosi dei seni cavernosi a livello cerebrale: aveva ricevuto il vaccino il 25 maggio in occasione di un open-day per gli over 18, con anamnesi vaccinale negativa. Soffriva però di piastrinopatia autoimmune ed assumeva la terapia ormonale».
L’anamnesi personalizzata è dunque l’elemento principale per qualsiasi approccio diagnostico o terapeutico ed è indispensabile nelle malattie cardiache, che sono tra l’altro la principale causa di morte, soprattutto nelle donne in menopausa…
«Per qualsiasi patologia l’anamnesi clinica del paziente è indispensabile e fondamentale. Nella diagnosi di una malattia cardiaca, in particolare, è importante non solo sapere se ci sono eventuali fattori di predisposizione familiare o addirittura una componente genetica, come potrebbe essere l’ipercolesterolemia familiare, ma sapere anche quale stile di vita conduce il soggetto, se è esposto a fattori di rischio quali il fumo, lo stress, una cattiva alimentazione e conoscere addirittura se ha problemi, magari legati all’insonnia o a una cattiva qualità del sonno. Sia lo stress eccessivo che la privazione di sonno possono diventare, se prolungati nel tempo, fattori di rischio cardiovascolare. Per non parlare di problemi noti quali pressione elevata o colesterolo alto, in particolare l’LDL, valori che secondo le Linee guida più recenti delle società scientifiche dovrebbero rientrare in parametri più bassi di quelli che stimiamo come normali, tenendo conto dei rischi e dei pregressi eventi cardiovascolari di ciascun paziente».
In menopausa questi parametri pressori e il colesterolo tendono spesso ad aumentare. Come si può intervenire?
«Questi problemi sono molto soggettivi e anche qui dipende molto dallo stile di vita della persona. Non è solo la menopausa in sé che altera questi valori, ma come si vive e quali cibi si consumano in questo periodo. Se si fa regolare e moderata attività fisica, si mantiene un’alimentazione sana, e non si conduce una vita particolarmente stressata, non è detto che questi valori si innalzino. Viceversa se queste abitudini di vita sono alterate, il rischio dell’aumento del colesterolo e della pressione è abbastanza scontato. E a questo punto bisogna intervenire con terapie “personalizzate”. L’ideale sarebbe prevenire queste alterazioni quando si è ancora giovani e cominciare a fare i controlli anche prima della menopausa, non quando si evidenziano i sintomi e la menopausa è già conclamata».
Alcuni studi correlano l’innalzamento pressorio al rischio cardiovascolare e anche alla comparsa di declino cognitivo…
«Ci sono diversi studi che supportano questa correlazione. In un gruppo di 1.440 individui di mezza età (media 55 anni) dello studio Framingham Offspring, la presenza di una pressione sistolica superiore a 140 mnHg è risultata associata, nel corso di un follow-up di 18 anni, a un aumento del rischio cardiovascolare e persino di demenza. La persistenza di elevata pressione anche nell’età avanzata (media 60 anni) è risultata associata a un ulteriore incremento del rischio. Recentemente i risultati dello studio Systolic Blood Pressure Intervention Trial Memory and Cognition in Decreased Hypertension (SPRIN MIND) hanno fornito un nuovo supporto all’ipotesi di una possibile prevenzione della demenza attraverso un corretto trattamento dell’ipertensione arteriosa, producendo la prima convincente dimostrazione dell’efficacia della terapia antipertensiva nel prevenire il declino cognitivo senile».
Anche il diabete e l’obesità sembrano essere coinvolti nella comparsa precoce di demenza?
«Una recente meta-analisi di 14 studi per un totale di 2 milioni di individui con diabete di tipo 2, di cui 102.174 affetti anche da demenza, ha dimostrato un significativo rischio di demenza con una relazione diretta tra durata e severità della malattia. Queste evidenze trovano fondamento nella presenza di fattori fisiopatologici, quali la condizione di insulino-resistenza, l’aumentato stress ossidativo e la microinfiammazione cronica, tanto da spingere i ricercatori ad etichettare la malattia di Alzheimer come “diabete mellito di tipo 3”. Anche l’obesità è un fattore di rischio del declino cognitivo. La relazione tra eccedenza ponderale e declino cognitivo è stata oggetto di una recente revisione di 19 studi, per un totale di quasi 600 mila individui di età compresa tra 35 e 65 anni, seguiti nel corso di un follow-up fino a 42 anni. I risultati dimostrano un aumentato rischio di demenza nei pazienti con obesità conclamata».
Sembra che analoghi rischi si corrono anche con il fumo e la deprivazione del sonno…
«Uno studio recentemente pubblicato su 46 mila uomini di età media superiore a 60 anni ha dimostrato un ridotto rischio di demenza nei soggetti che non avevano mai fumato e in quelli che avevano smesso di fumare da almeno 4 anni rispetto a quelli che avevano continuato a fumare. Nel corso degli ultimi anni un crescente interesse è stato rivolto dalla letteratura scientifica all’ipotesi che anche i disturbi del sonno possano determinare un aumentato rischio di sviluppare sia eventi cardiovascolari che demenza. Due meta-analisi recentemente pubblicate hanno fornito la medesima dimostrazione di un significativo incremento del rischio di demenza nei pazienti che presentavano disturbi del sonno in generale (durata del sonno breve, qualità del sonno scadente, alterazioni del ritmo circadiano, insonnia, sindrome delle apnee ostruttive). Questi disturbi del sonno sono risultati associati a un aumentato rischio di demenza in generale e di malattia di Alzheimer. La relazione tra durata del sonno e rischio di declino cognitivo sembra causare un aumentato rischio di demenza in generale e di malattia di Alzheimer, per una durata del sonno inferiore a 5 ore».
di Paola Trombetta
Nuovi strumenti diagnostici e interventi meno invasivi
Dal congresso di Firenze sono emerse novità anche nel campo della diagnostica precoce, come le nuove tecniche di imaging non invasivo per valutare la presenza di aterosclerosi.
«È oggi possibile cercare l’aterosclerosi attraverso tecniche di imaging nel distretto arterioso femorale, carotideo o coronarico», puntualizza il professor Francesco Prati, presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto e direttore del Comitato scientifico del Congresso. «Secondo i ricercatori dello studio PESA, la ricerca dell’aterosclerosi sub clinica andrebbe effettuata preferibilmente nel distretto femorale, che è più facilmente interessato dall’aterosclerosi. Focalizzando l’attenzione nei soggetti di età compresa tra i 50 ed i 54 anni, quella in cui abitualmente viene suggerita un’iniziale visita cardiologica di prevenzione, la percentuale di aterosclerosi nei distretti carotidei, iliaco femorale e coronarico erano, nel sesso maschile, rispettivamente del 48%, 72% e 43%. Rimane tuttavia la tendenza alla ricerca dell’aterosclerosi in distretti che potremmo definire più nobili (cervello e cuore) utilizzando l’ultrasonografia delle carotidi o il calcium score coronarico. Il calcium score è una metodica validata, poco esposta a soggettività interpretativa, in grado di valutare il rischio di eventi cardiovascolari, come dimostrato da più studi clinici».
Un altro tema affrontato al convegno e ampiamente dibattuto dalla comunità cardiologica è quello della non opportunità dell’angioplastica primaria tardiva (oltre le 12 ore dall’infarto). «Infatti, mentre l’ipotesi dell’arteria aperta “precocemente” è stata da sempre confermata – sottolinea il professor Prati – quella dell’arteria aperta “tardiva” (cioè la riperfusione di un’arteria occlusa, correlata all’infarto, in un momento troppo tardivo) è rimasta controversa per anni. Questo perché il meccanismo con cui le cellule del miocardio sfuggono alla morte irreversibile, nonostante ore di ridotto apporto di ossigeno, non è stato completamente chiarito. Diverse sono le variabili che potrebbero entrare in gioco, tra cui la possibile formazione di una circolazione collaterale come meccanismo per preservare la vitalità del cuore. In diversi studi si è osservato un beneficio sostanziale nel 41% dei soggetti trattati con angioplastica primaria, nonostante l’occlusione totale del vaso responsabile dell’infarto. Un altro studio ha confermato che l’approccio invasivo (esecuzione dell’angioplastica coronarica a 12-24 ore dall’insorgenza dei sintomi) era significativamente associato a un miglioramento clinico a 12 mesi rispetto al trattamento non invasivo, solo con le terapie. Sulla base di questi studi, le Linee Guida Europee raccomandano l’angioplastica primaria nei pazienti instabili che si presentano a 12-24 ore dall’insorgenza dei sintomi e che mostrano segni di ischemia in atto e suggeriscono l’impiego dell’angioplastica primaria di routine per pazienti stabili che si presentano da 12 a 48 h dall’insorgenza dei sintomi». P.T.