Tre femminicidi in soli tre giorni nel modenese. Elisa uccisa dal marito, insieme ai due figli e alla mamma, a Sassuolo. Milena, uccisa dal figlio 48 enne a Modena. E a Montese, sull’Appennino modenese, un’altra donna è stata uccisa dal marito pensionato. Sono i casi più recenti, tutti “annunciati”, di una lista già troppo lunga del tragico elenco di vittime di femminicidio del 2021. Che continua ad aumentare, giorno dopo giorno, e non sembra avere fine. I numeri (report Ministero dell’Interno) sono spietati: in uno scenario generale in cui gli omicidi sono in lieve calo, relativamente al periodo 1° gennaio – 7 novembre 2021, sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne, di cui 87 uccise in ambito familiare da compagni, mariti, fidanzati, ex partner (contro le 83 nell’analogo periodo dell’anno scorso). La pandemia ha fatto invece scendere, in modo molto preoccupante, il numero di denunce presentate dalle donne per abusi o violenze subite tra le mura domestiche da parte dei loro compagni o mariti. Si è anche abbassata l’età degli autori delle violenze e delle vittime. Un allarme che testimonia come gli stereotipi di genere e la sottovalutazione della violenza siano ancora radicati nella nostra società, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’attenzione dei media. Questi numeri ci raccontano che il fenomeno continua ad essere grave ed è causato prevalentemente da una cultura patriarcale, fatta di discriminazioni di genere e di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini. Non c’è dubbio che la questione culturale è gigantesca. E sul fronte normativo? Secondo la presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, senatrice Valeria Valente: “Il punto non è fare più norme, ma rendere esecutive quelle già varate, affinché vengano effettivamente applicate e in maniera tempestiva”. Cosa non funziona? Il Parlamento promulga leggi che rafforzano pene contro i violenti e poi i Tribunali le smontano a colpi di archiviazioni: condanne troppo lievi e ridotte con il patteggiamento per i violenti. Le donne non vengono credute, neanche nei tribunali; i processi durano all’infinito (e questo è stato più volte condannato dalla Corte Europea); le Consulenze Tecniche d’Ufficio sono affidate a periti, spesso con perizie superficiali.
L’importanza della formazione degli operatori. La Commissione parlamentare sul femminicidio lo scrive, nero su bianco: manca un tassello fondamentale, che è quello della formazione di tutti gli operatori in campo: forze dell’ordine, magistrati, giudici, assistenti sociali, avvocati, psicologi e medici. Serve capacità di valutazione del rischio e di lettura della pericolosità delle situazioni in cui si trovano le donne. A tutti i livelli. Le famose denunce che finiscono in niente, cosa di cui ci si rammarica solo quando c’è un femminicidio. “Senza una formazione professionale e culturale in tema di violenza di genere, tanti operatori e operatrici finiscono per non leggere la violenza, per sottovalutarla o per non fare una valutazione adeguata del rischio”, ha dichiarato la senatrice Valente. In caso di denuncia il rischio è di subire un’ulteriore condizione di sofferenza: la cosiddetta “vittimizzazione secondaria” proprio da parte di quelle istituzioni che dovrebbero proteggere le donne e far rispettare la legge. Succede quando la donna che denuncia non viene creduta, quando la violenza non viene riconosciuta e derubricata a conflitto di coppia. Quando in casi di violenze sessuali nei tribunali si dice “Com’era vestita? Che ha fatto? Che ha detto? Quando sulle pagine dei giornali e in tv si sente parlare di “raptus” di “gelosia” o “poverino aveva perso il lavoro”. Con effetti devastanti. A denunciarli è il rapporto pubblicato da Grevio, il gruppo indipendente del Consiglio d’Europa che ha il compito di vigilare sull’applicazione della Convenzione di Istanbul nei vari stati europei che l’hanno firmata. “Le prassi denigratorie e colpevolizzanti per le donne, che si riscontrano nelle aule di tribunale e delle quali si vedono gli effetti nelle sentenze adottate, non solo vanificano le conquiste raggiunte sul piano normativo, ma alimentano anche la diffidenza delle vittime nei confronti del sistema di giustizia penale, trattenendole dal denunciare la violenza subita”, fa notare la senatrice.
Mai più l’uso giudiziario della “Sindrome da alienazione parentale” (Pas). E poi c’è il dramma delle madri che si vedono strappare i figli, accusate di “alienazione parentale”, nell’ambito della lotta per l’affidamento. Anche un rifiuto del bambino nei confronti del padre viene generalmente additato come un tentativo di manipolazione del minore, da parte della madre, per allontanarlo dal padre. La Pas (la cosiddetta Sindrome da alienazione parentale) continua a trovare applicazione in molti tribunali del nostro Paese e viene spesso invocata dai padri nelle cause di separazione e di affidamento dei figli quando si stabiliscono gli accordi per l’affidamento dei minori e i diritti di visita. Persino nei casi di violenza domestica. Nella stragrande maggioranza dei casi nei tribunali per minorenni, come ha denunciato il gruppo delle avvocate di Dire (Donne in Rete contro la violenza) è stato disposto l’affido condiviso tra i genitori anche in presenza di denunce, referti, misure cautelari emesse in sede penale, decreti di rinvio a giudizio, sentenze di condanna e relazioni dei centri antiviolenza. Una prassi pericolosa che le attiviste dei centri antiviolenza denunciano da tempo e non è più tollerabile. La presa di posizione che mancava, non si è fatta attendere: con una recente Ordinanza, n. 13217/21, durissima anche la Suprema Corte di Cassazione, che è tornata sulla Pas condannandola senza appello. E che ora trova ascolto anche al Parlamento Europeo. Sul presupposto che, per una più efficace lotta contro le forme di violenza di genere (online e offline), debba contribuire anche l’Unione, il Parlamento europeo il 6 ottobre 2021 ha approvato a larghissima maggioranza (con 510 voti favorevoli, 31 contrari e 141 astensioni) una risoluzione in cui chiede agli Stati membri “misure urgenti per proteggere le vittime della violenza del partner nelle cause per l’affidamento dei figli”. Deplora e censura l’utilizzo della Pas, ancora usata nei tribunali, anche in caso di violenza domestica. Riconosce che “le dispute per l’affidamento dei bambini possono essere usate da partner violenti per continuare a danneggiare le loro vittime” e che “la protezione delle donne e dei bambini e l’interesse superiore del bambino devono avere la precedenza su altri criteri (il riferimento è alla bigenitorialità) quando si stabiliscono gli accordi per la custodia dei minori e i diritti di visita”. La risoluzione votata dal Parlamento europeo parte coraggiosamente da una premessa fondamentale: ossia che la custodia congiunta dei figli, nei casi di violenza, è contraria al supremo interesse dei minori, addirittura rappresenta una violazione dei diritti. Il Parlamento europeo denuncia altresì le percentuali di condanne nei casi di violenza di genere contro le donne a livelli inaccettabilmente bassi. Si mostra anche preoccupato per la violenza online che si va diffondendo sempre più. E gli europarlamentari chiedono alla Commissione presieduta dal Ursula Von der Leyen, di lanciare un segnale forte: includere la violenza di genere tra le aree di crimine particolarmente gravi dell’Unione Europea. E promuovere una normativa comune (e un regime di sanzioni penali) per contrastare tutte le forme di violenza e discriminazione basate sul genere.
di Cristina Tirinzoni