Che la musica facesse bene al bambino in grembo è ormai confermato da diversi studi clinici. Ma l’ipotesi che la musica, o meglio alcuni suoni con specifiche lunghezze d’onda, possano influire anche sullo sviluppo dell’embrione è una scommessa che l’Istituto IVI di Roma (la prima istituzione spagnola specializzata in PMA, che di recente ha aperto centri anche a Milano e a Bari) vorrebbe valutare nei prossimi mesi con uno studio clinico su un centinaio di embrioni. L’idea di avviare questo studio viene dal biologo cellulare, che è anche musicista e compositore, Emiliano Toso: circa un anno fa aveva suonato un pianoforte a coda in sala operatoria, durante una delicata operazione su un bambino di dieci anni, con doppio tumore al midollo spinale, al fine di indurre rilassamento sia al piccolo che all’équipe chirurgica che lo stava operando.
«Ci sono musiche che favoriscono il benessere e da qui è partita la mia ricerca», conferma lo stesso Toso. «Il mio progetto “Translational Music” sta ottenendo numerosi riscontri nel campo della salute e non solo a livello cellulare e umano. Stiamo portando avanti, con l’Università di Padova, uno studio per indagare i benefici della musica e delle sue vibrazioni sullo sviluppo dei semi delle piante. Per analogia con il mondo vegetale, abbiamo pensato di estendere queste ipotesi di beneficio della musica anche sullo sviluppo degli embrioni. Nei prossimi mesi valuteremo il risultato di questa scommessa, resa possibile grazie alle sofisticate tecniche di incubazione degli embrioni e alla messa a punto di uno speciale algoritmo per valutare eventuali modifiche morfo-cinetiche degli embrioni stessi».
Per capire meglio l’importanza di questo progetto e l’influenza che fattori esterni, come la musica, possano migliorare lo sviluppo embrionale e la futura personalità del bambino, in un processo molto delicato come la fecondazione assistita, abbiamo posto qualche domanda alla dottoressa Vincenza Zimbardi, consulente psicologa dell’Istituto IVI di Roma.
Con questo innovativo progetto pilota vi proponete di valutare quanto i fattori ambientali possano influire sullo sviluppo dell’embrione e di conseguenza, immagino, anche del futuro bambino. A suo avviso, un migliore sviluppo embrionale porterà anche alla nascita di un bambino più sano e sereno?
«Non possiamo ancora dimostrare che un bambino, concepito con questo tipo di accompagnamento musicale, possa essere più sano e sereno degli altri. Si tratta di un campo ancora inesplorato perché coinvolge le fasi iniziali della vita embrionale. Sicuramente fa bene alla mamma e quindi anche al bambino. Gli studi finora condotti riguardano l’utilizzo della musica nel grembo materno o nei bambini prematuri: hanno confermato benefici sullo sviluppo neuronale e psicologico del bambino».
Esistono invece studi che confrontano le prestazioni cognitive dei bambini nati con fecondazione assistita rispetto a quelli nati in modo naturale…
«Un dato è certo ed è stato ampiamente dimostrato in questi anni: i bambini nati con fecondazione assistita hanno un rendimento scolastico e punteggi più alti nei test cognitivi rispetto ai bambini nati in modo naturale. Ciò che influisce di più sulle abilità intellettive è il background familiare. Si tratta di bambini “fortemente voluti” dai genitori, che hanno maturato una “genitorialità più consapevole”, con tutte le difficoltà che comunque questa scelta comporta. Un bambino concepito in modo più consapevole, cresce sicuramente meglio e avrà una personalità più sicura e meno problematica».
Nelle coppie che stanno iniziando un percorso di procreazione assistita, quali sono i maggiori timori e quali invece le aspettative?
«Il timore principale è quello di non riuscire ad arrivare alla gravidanza e dunque ci sono molta incertezza e molta ansia, ma anche senso di vergogna e di rabbia per non essere riusciti a procreare in modo naturale. Le aspettative sono invece quelle di riuscire a far avverare un desiderio molto grande, come la genitorialità, che sorregge le coppie durante il difficile percorso della PMA, più impegnativo per le donne che sono ovviamente più coinvolte dal punto di vista corporeo. A volte le donne vivono una sorta di “ansia da prestazione”, per il timore di non riuscire nell’intento. Ma sono talmente motivate che superano questo stato d’animo e, pur di riuscire, sono disposte a ripetere anche diverse volte i trattamenti medici per poter avere una gravidanza».
Oltre alle difficoltà connesse all’iter di PMA omologa, c’è chi, non potendo utilizzare i propri gameti, magari per età troppo avanzata o per altri motivi, deve ricorrere alla fecondazione eterologa. Come vivono le donne questo percorso?
«In questi casi si aggiunge un’ulteriore difficoltà perché la donna deve elaborare il cosiddetto “lutto genetico”, pensando che il proprio DNA non verrà trasferito al bambino: si tratta di una grande “rinuncia” che, se viene elaborata con l’aiuto di uno psicologo, sarà destinata a trasformarsi in “accettazione di un dono”. Non a caso si parla di “donazione” di ovociti, un termine che viene usato in quasi tutti i Paesi stranieri, ad eccezione dell’Italia, in riferimento alla fecondazione eterologa. L’ovocita in realtà è un “dono” che viene, però, plasmato nell’utero della madre ricevente, che è un ambiente unico, dal punto di vista ormonale, chimico, emotivo. È questo ambiente che influisce molto sul sistema neuronale del bambino. I nove mesi di gravidanza rappresentano una simbiosi unica con il nascituro. Per questo è riduttivo parlare solo di “genetica”, ma si usa sempre di più il termine “epigenetica” per indicare tutti quei fattori, ambientali ed esterni, che influenzano il rapporto madre-feto. Dopo il parto inizia poi la vera convivenza e il bambino diventa, a tutti gli effetti, della mamma che lo partorisce».
Come viene affrontato il problema della mancata somiglianza fisica tra la mamma e il bambino?
«Nel processo di fecondazione assistita si presta molta attenzione anche alle caratteristiche fisiche. Nella maggior parte dei centri di PMA si cerca di selezionare gameti anche in funzione delle caratteristiche somatiche della donna ricevente. In aggiunta a ciò, la somiglianza si “apprende” anche dopo la nascita: il bambino tende infatti ad “imitare” i gesti e i comportamenti dei genitori. Entrano in gioco i cosiddetti “neuroni specchio” in cui si rispecchiano le figure di riferimento e anche il carattere e la personalità che si plasmano dalla relazione unica che si instaura tra quel bambino e quel genitore. La personalità del bambino si forma nella relazione con i suoi genitori, i nonni, i parenti e tutto l’ambiente che lo circonda. Ed è una relazione unica, che solo il bambino che vive in questa famiglia sarà in grado di svilupparla. E sarà lui a diventare sempre più simile ai suoi genitori, soprattutto come carattere e personalità, e diventare parte integrata a tutti gli effetti del nucleo familiare in cui cresce».
di Paola Trombetta