Il cuore delle donne: conoscerlo per proteggerlo

Poco studiate, meno rappresentate nei trial clinici, sotto diagnosticate, sotto trattate. Ancora, in medicina, non viene riconosciuta alla donna una identità “di genere”, ovvero manifestazioni cliniche differenti in caso di patologie che accomunano entrambi i sessi, la propensione a sviluppare alcune malattie rispetto ad altre, anche non tipicamente femminili, le patologie autoimmuni ad esempio, la diversa risposta farmaci e terapie rispetto all’uomo. Fattori che possono essere determinati, dalla differente struttura anatomica e funzionale, dall’assetto ormonale che invece nel trattamento e cura dovrebbero essere tenuti in considerazione a discapito, per la donna, di un aumento di complicazioni e di mortalità. E di questi aspetti differenzianti se ne hanno almeno due esempi: di recente Covid-19, che ha mostrato sia durante la fase acuta dell’infezione sia nella fase cronica successiva, differenze peculiari tra uomini e donne; e le patologie cardiovascolari, come l’infarto che ha caratteristiche ben diverse tra i due sessi, non più ad appannaggio maschile. «Riconoscere e valorizzare queste differenze – spiega Giovanni Battista Zito, presidente di ARCA (Associazioni Regionali Cardiologi Ambulatoriali) – permette di offrire terapie più appropriate, garantendo ad ogni persona la cura migliore, rafforzando il concetto di centralità del paziente e di personalizzazione delle cure». E con l’obiettivo di sensibilizzare sull’importanza di promuovere una medicina di genere, in primis in ambito cardiologico, si è svolto a Venezia il primo congresso di Medicina di Genere organizzato da ARCA e realizzato con il contributo non condizionante della multinazionale farmaceutica Adamed, incentrato sul rischio cardiovascolare al femminile. Argomento che ha forti motivazioni di fondo: illustrare i contenuti del documento di consenso The Lancet Women and Cardiovascular disease Commission, presentato in occasione dell’ultimo congresso dell’American College of Cardiology a maggio 2021, che si pone l’obiettivo di ridurre l’incidenza delle malattie cardiovascolari nella popolazione femminile a livello globale entro il 2030. A tutt’oggi queste patologie sono la prima causa di mortalità: 275 milioni di diagnosi di malattia cardiovascolare nel mondo, nel 2019, con 9 milioni di decessi associati. Dall’altro fare (in)formazione sul rischio cardiovascolare della donna: poco noto, sottostimato sia dalla classe medica sia dalla popolazione femminile, come evidenzia la CARIN WOMEN (Cardiovascular Risk Awareness of Italian WOMEN), un’ indagine nazionale condotta su quasi 6 mila le donne italiane tra febbraio 2020 e novembre 2021. Dall’analisi dei dati raccolti emerge infatti che in riferimento al rischio cardiovascolare:

  • C’è scarsa consapevolezza: solo il 15% di donne ritiene sia maggiore nel sesso femminile rispetto al sesso maschile, e ben il 27% che sia inferiore.
  • Si fa poca prevenzione: la sedentarietà la fa da padrone: solo il 20% di donne dichiara di riuscire a svolgere regolarmente attività fisica, nonostante sia nota l’efficacia nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari, mentre il 31% l’ha equiparata ai lavori casalinghi. I consumi di alimenti vegetali sono insufficienti: solo 1-2 porzioni al giorno di frutta e verdura contro le 5 consigliate; si segue uno scorretto stile di vita con abitudini alimentari sbagliate (33%), si praticare irregolare attività fisica (28%), difficoltà di abbandono del fumo (15%).

«Alla luce di questi risultati, guardando all’obiettivo del 2030 – continua Zito – occorre aumentare la conoscenza e la consapevolezza delle malattie cardiovascolari nelle donne, definire target ed obiettivi al loro contrasto, rafforzare i sistemi sanitari e coinvolgere gli operatori sanitari potenziandone le conoscenze». Soprattutto riguardo ai fattori di rischio “di genere” emersi dagli studi sulle malattie cardiovascolari (MCV), quali:

  • il fumo: un terzo delle sigarette fumate dall’uomo espongono la donna al medesimo livello di rischio cardiovascolare;
  • le malattie autoimmuni: lo stato di infiammazione cronica sistemica di base e la complicità degli estrogeni possono associarsi a un maggior rischio per MCV;
  • la menopausa precoce (< 45 anni): rispetto a un esordio più tardivo (> 50 anni);
  • la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS): può compromettere la salute cardiovascolare delle donne in età giovane tra i 30 e 40 anni, aumentando il rischio di MCV del 19% rispetto alle coetanee senza disturbi ovarici, complici anche la possibile sovrappeso/obesità, ipertensione, diabete, dislipidemia e sindrome metabolica associate;
  • gestosi e ipertensione gestazionale: raddoppiano il rischio di MCV entro 5-15 anni dalla gravidanza e quadruplicano quello di ipertensione arteriosa. Anche una storia di diabete in gravidanza può essere una spia di aumentato rischio di diabete ma anche di MCV.
  • tumore al seno: può esporre a un rischio più alto di sviluppare MCV, in particolare infarto, ictus. Mentre esami di screening, quali la mammografia che evidenzia la presenza di calcificazioni arteriose mammarie, seppur senza rilievo dal punto di vista oncologico, può segnalare possibili calcificazioni delle arterie coronariche.

A spiegare la diversità di genere, sono anche le differenti manifestazioni di Covid osservate in uomini e donne. Le evidenze dimostrano infatti che:

  • Nelle donne il contagio evolve più raramente in un decorso clinico severo. Uno studio condotto dalla Società Italiana di Ipertensione, su oltre 2.300 pazienti ricoverati in Italia, attesta che tra i ricoverati nelle Unità di Terapia Intensiva circa 3 su 4 (74%) erano di sesso maschile.
  • Dati italiani, in linea con quelli europei ed internazionali, confermano una mortalità doppia fra gli uomini rispetto alle donne (17.7% vs 10.5%).
  • Dati forniti da Italia, Cina e Corea del Sud indicherebbero che la perdita del gusto e dell’olfatto è superiore fra la popolazione femminile (3 su 4) rispetto alla maschile.
  • Le donne sembrano avere il doppio delle probabilità di sviluppare il Long-Covid, ma solo fino a circa 60 anni, quando il divario nel rischio si appiana.

«La medicina è stata tradizionalmente “androcentrica” – conclude Maria Grazia Modena, cardiologa dell’Università di Modena e Reggio  – trascurando l’esistenza di importanti differenze di genere in termini di suscettibilità, manifestazione clinica, risposta alle terapie e prognosi in diversi contesti, profilo di rischio decorso clinico differente rispetto all’uomo: tutti fattori che necessitano di terapia appropriata e attenzione personalizzata».

di Francesca Morelli

 

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