Sono donne, sono mamme, ma hanno la sfortuna di trovarsi in Ucraina. E per loro l’8 maggio non c’è festa: solo un altro giorno di sofferenze, di paure, con il rischio di essere uccise, magari con i propri figli, da colpi di mortaio o da missili che distruggono ciò che capita sotto tiro, come un terremoto che demolisce tutto all’improvviso. Come è accaduto il 1° marzo a Valerie Glodan, la giovane mamma ucraina rimasta uccisa insieme alla sua bimba di tre mesi nell’attacco missilistico russo sulla città di Odessa. Testimonianze di morte che stridono accanto ad altrettante immagini di vita. Le foto pubblicate dai giornali mostrano Valerie che accarezza il suo pancione di 9 mesi e scrive: «Le 40 settimane più belle della mia vita. La nostra bambina Kira ora ha un mese e il suo papà le ha portato i primi fiori. Questo è il massimo livello di felicità». Nella foto scattata a Odessa due mesi prima dell’inizio della guerra, mamma Valerie e la piccola Kira sono felici. Solo tre mesi dopo, la loro vita finisce tragicamente a causa di un missile russo che ha sventrato il loro appartamento.
E come possiamo dimenticare l’immagine della donna incinta, che era stata fotografata mentre veniva evacuata da un ospedale pediatrico, bombardato nella città ucraina di Mariupol: anche lei è morta insieme al suo bambino. La donna era stata trasportata d’urgenza in un altro ospedale dopo l’attacco russo ed era stata fotografata, distesa su una barella, mentre si teneva con le mani il grembo insanguinato. La foto fece il giro del mondo in pochi minuti. Nonostante il rapido intervento, i medici non sono riusciti a salvare né lei, né il bambino. Altre mamme invece ce l’hanno fatta e i loro bimbi sono nati negli scantinati, tra un bombardamento e l’altro. E cercano ancora oggi con coraggio di sopravvivere e alleviare le sofferenze dei piccoli, che spesso non riescono neppure ad essere sufficientemente nutriti. Altre mamme fanno di tutto per consolare i piccoli impauriti e intonano canzoni e ninne nanne o distribuiscono matite colorate per distrarre i bambini dal terrore delle bombe.
Non si contano più le mamme “eroine” che in questi due mesi hanno sacrificato la loro vita per i figli. Come mamma Tatiana che, per portare in salvo i figli Mykyta, 18 anni e Alisa, 9 anni, è scappata dalla loro casa di Irpin alla periferia di Kiev, continuamente bombardata. I loro corpi sono stati trovati crivellati di proiettili, come fossero bersagli da colpire, con accanto la valigia dove avevano raccolto i ricordi di una vita. E ancora Natalia Kretova, la mamma proveniente da Ternipil, che si è accasciata a terra davanti ai suoi figli appena scesa dall’autobus che da Leopoli li aveva portati in salvo a Roma, distrutta dalla tensione e dalla fatica, che le ha causato un infarto, dopo 39 ore di viaggio.
E non dobbiamo dimenticare una mamma davvero eroica: medico e madre di dodici figli, Olga Semidyanova è morta a 48 anni combattendo tra le regioni di Donetsk e Zaporizhzhya. La notizia è rimbalzata il 16 marzo dalla famiglia ai social network ed è stata riportata, tra gli altri, dal Kyiv Independent. La sua famiglia, dodici figli, di cui sei adottati da un orfanotrofio, chiede ancora oggi di riavere il corpo di quella che è passata alla storia del conflitto tra Russia e Ucraina con il titolo di “mamma eroina”. Una ben magra soddisfazione per i tanti figli che ora dovranno crescere da soli e forse i più piccoli saranno affidati a qualche istituto religioso o a qualche famiglia compassionevole, nella speranza che non finiscano deportati in Russia…
Di fronte a questi episodi, non possiamo rimanere insensibili e festeggiare la Festa della mamma come se nulla fosse accaduto! Non c’è gioia, ma dolore, sofferenza. E il nostro pensiero va a queste mamme che sono morte o che stanno vivendo nella paura e nell’angoscia di far vivere ai propri figli una guerra che nessuna di loro avrebbe mai voluto. E forse neppure le mamme dei tanti soldati russi morti, magari anche senza sepoltura, in questo assurdo conflitto, “fatto da persone che si uccidono senza conoscersi… per gli interessi di persone che si conoscono, ma non si uccidono” (Pablo Neruda).
di Paola Trombetta