Nuove terapie biologiche per contrastare il diffondersi della proteina amiloide nella Malattia di Alzheimer. Diagnosi precoce con un semplice test salivare per individuare una malattia come il Parkinson. Stimolazione cognitiva abbinata a una dieta ipolipidica per prevenire la demenza. E anche gli ultimi aggiornamenti sullo studio Neurocovid SIN che ha approfondito la relazione tra Covid e sistema nervoso. Sono alcuni degli argomenti discussi al Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia (SIN), da poco concluso a Milano.
«Al Congresso di quest’anno abbiamo assistito alla presentazione di numerosi studi scientifici realizzati da neurologi italiani, particolarmente rilevanti dal punto di vista della ricaduta clinica», commenta il Professor Alfredo Berardelli, Presidente della Società Italiana di Neurologia. «Il nostro Paese, infatti, è tra i più attivi nel campo della ricerca scientifica in neurologia e si posiziona al 5° posto a livello mondiale per il numero degli studi dopo USA, Cina, Germania e Gran Bretagna. L’emergenza della crescita delle patologie neurologiche, legata all’invecchiamento della popolazione, è un tema molto attuale sul quale i neurologi della SIN si confrontano costantemente per cercare di migliorare la vita dei pazienti, non solo dal punto di vista delle cure, ma anche da quello dell’assistenza, estremamente importante in un’epoca in cui l’età media della vita si è allungata in maniera considerevole».
Le patologie neurologiche, al centro del Congresso Nazionale, impattano fortemente sulla popolazione: 12 milioni gli italiani che sono affetti da disturbi del sonno; oltre 6 milioni le persone che soffrono di emicrania, 2/3 circa delle quali donne; 1 milione coloro che convivono ogni giorno con la Malattia di Alzheimer e hanno bisogno di costante assistenza; 400 mila le persone colpite dal Morbo di Parkinson; la sclerosi multipla affligge circa 90 mila donne e uomini che devono convivere ogni giorno con i sintomi di una malattia che induce disabilità progressiva; numeri ugualmente preoccupanti sono quelli che descrivono i casi di ictus, quasi 200 mila ogni anno e circa 1 milione di persone che vivono con gli esiti invalidanti della malattia.
Alzheimer: diagnosi precoce, prevenzione e cure
Sono circa un milione le persone che convivono ogni giorno con la Malattia di Alzheimer: richiede un’assistenza continua del malato che, progressivamente, perde la cognizione della sua identità e della realtà che lo circonda. Curare e prevenire questa malattia è uno degli obiettivi della neurologia che da anni si sta impegnando in un campo ancora molto difficile da indagare e gestire. «La diagnosi precoce è la condizione necessaria per l’accesso alle nuove terapie contro l’Alzheimer e deve essere effettuata quando ancora non sono comparsi i sintomi tipici della malattia, nonché quando il disturbo non interferisce sulle capacità e sulla autonomia», puntualizza il Professor Camillo Marra, Presidente SINdem – Associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze. «In questa fase in cui il disturbo neurocognitivo è minimo, l’indagine diagnostica necessita di competenze specialistiche molteplici che includono l’investigazione neuropsicologica, lo studio morfologico cerebrale attraverso la RMN cerebrale, lo studio della funzionalità sinaptica e metabolica cerebrale con la PET cerebrale e lo studio di biomarcatori in grado di identificare le proteine associate alla Malattia di Alzheimer dall’analisi del liquor cefalorachidiano. Anche in assenza di terapie mirate in grado di modificare l’avanzamento della malattia, la diagnosi precoce è necessaria per attuare terapie preventive che rallentino la progressione della patologia».
Molto significativi i risultati dello studio finlandese FINGER sulla prevenzione, pubblicati su autorevoli riviste scientifiche: hanno dimostrato che tecniche di stimolazione cognitiva e dieta bilanciata ipolipidica, associate a un costante esercizio fisico, sono in grado di ridurre sia lo sviluppo di demenza nei soggetti a rischio sia di rallentare la progressione della demenza
«Per quanto riguarda le nuove opportunità terapeutiche, gli ultimi risultati su due nuove molecole, Donanemab e Lecanemab, indicano che entrambe riducono l’accumulo della proteina amiloide nel cervello del 60% e di altre proteine correlate alla neurodegenerazione come la Tau, e di conseguenza inducono un rallentamento della progressione della malattia, pari a circa il 30% rispetto a chi non assume la terapia», precisa Professor Alessandro Padovani, Direttore Clinica Neurologica Università di Brescia. «In attesa di ulteriori conferme, è giusto sottolineare che questi farmaci appaiono efficaci anche in soggetti anziani già affetti da un decadimento cognitivo. Rispetto ad altri farmaci, mostrano un profilo di tollerabilità più soddisfacente per quanto riguarda gli eventi avversi, in particolare lo sviluppo di edema cerebrale e di microemorragie, sebbene occorra ricordare che queste sono in parte più frequenti in chi assume antiaggreganti e anticoagulanti».
Malattia di Parkinson: la prognosi attraverso test salivare
Dal 2018 il gruppo di ricerca de La Sapienza di Roma, guidato dal Professor Alfredo Berardelli, attuale Presidente della Società Italiana di Neurologia, inseguiva la possibilità di individuare in maniera non invasiva un biomarcatore diagnostico precoce della malattia di Parkinson, identificando la proteina anomala alfa-sinucleina, prima possibile solo tramite biopsia gastroenterica o della ghiandola salivare, dove sembra si concentri prima di diffondersi al cervello. Recentemente, è stato ottenuto un risultato mai visto prima: tramite il test salivare si ottiene non solo la diagnosi precoce, ma addirittura un indice prognostico, ossia una previsione della progressione della malattia. I ricercatori romani hanno infatti scoperto che dall’analisi di particolari componenti salivari e dei loro rapporti rispetto alla concentrazione di alfa-sinucleina si può fare una previsione del decorso altamente affidabile. L’alfa-sinucleina oligomerica è il marker d’eccellenza che, con una sensibilità quasi del 100% e una specificità del 98,39%, può distinguere chi è in fase iniziale di malattia da chi non è affetto, con un’accuratezza diagnostica complessiva del 99%.
Il sonno e le patologie neurologiche
Le scoperte degli ultimi 20 anni dimostrano come lo studio del sonno e del ritmo circadiano abbia un ruolo centrale nella comprensione dei meccanismi per la prevenzione delle patologie cardiovascolari, ma anche del declino cognitivo, della Malattia di Alzheimer, della Malattia di Parkinson e di altre patologie neurodegenerative. Numerosi studi scientifici hanno indagato il sonno notturno nei pazienti a rischio di sviluppare patologie neurodegenerative, e in particolare la Malattia di Alzheimer, o che presentino una disfunzione cognitiva nell’ottica di prevenzione della demenza. «Il trattamento dell’insonnia diviene così uno degli obiettivi per la prevenzione della disfunzione cognitiva e della malattia di Alzheimer», conferma il professor Giuseppe Plazzi, Responsabile Centro del Sonno, IRCCS delle Scienze Neurologiche di Bologna. «Data l’importanza di indagare la qualità del sonno e le sue caratteristiche, la presenza di disturbi deve condurci a impostare trattamenti farmacologici e non per assicurare un sonno notturno di buona qualità e quantità. Di recente approvazione AIFA, la prima terapia che agisce su uno dei sistemi della veglia bloccando i recettori dell’orexina».
Uno studio dell’International REM Sleep Behaviour Disorder (RBD) Study Group, un gruppo di studio internazionale che promuove la ricerca e la divulgazione scientifica di questo disturbo, coordinato dal Professor Dario Arnaldi dell’Università di Genova, ha dimostrato che alterazioni nel funzionamento di specifiche aree cerebrali visibili alla SPECT (un esame di neuroimmagini), in combinazione con costipazione, deficit cognitivo ed età, indicano un altissimo rischio di sviluppare Parkinson nei due anni successivi alla diagnosi di RBD, un’informazione estremamente utile per il disegno di nuovi studi farmacologici.
COVID e cervello: una relazione in evoluzione
La pandemia di COVID-19 ha evidenziato complicanze neurologiche, sia nelle fasi acute della malattia, che nelle settimane e mesi successivi. In questi quasi tre anni dall’inizio della pandemia, molti lavori sono stati pubblicati, riguardanti segnalazioni di singole casistiche e studi multicentrici con numerosi casi. In particolare, nell’ultimo anno, sono emerse tante segnalazioni di possibili sequele a distanza dall’infezione, note come “Long-Covid” che riguardano disfunzioni di vari apparati e comprendono anche problematiche neurologiche e psichiatriche. «Dagli studi autoptici è emersa la possibilità di invasione del virus nel sistema nervoso centrale, dove sono state evidenziate proteine virali, ma la maggior parte del danno appare legata a meccanismi vascolari o infiammatori, con attivazione di cellule microgliali, un meccanismo noto come “neuro infiammazione”», ha sottolineato il Professor Carlo Ferrarese, Direttore del Centro di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e della Clinica Neurologica, Ospedale San Gerardo di Monza. «In occasione del convegno sono stati presentati i risultati dello studio multicentrico, chiamato Neurocovid, patrocinato dalla Società Italiana di Neurologia, che ha visto la partecipazione di 38 Neurologie italiane, distribuite nelle varie regioni, con la partecipazione anche di San Marino. Tale studio ha reclutato quasi 3000 pazienti affetti da complicanze neurologiche, dei quali quasi 2000 erano ospedalizzati e un migliaio seguiti a domicilio, nel periodo 1 marzo 2020 – 30 giugno 2021, con un follow-up dei casi fino al 31 dicembre 2021. Attualmente è stata effettuata l’analisi dei pazienti ospedalizzati, che hanno presentato 2881 complicanze neurologiche in 1865 pazienti, su un totale di 52759 pazienti ospedalizzati per COVID-19, con diversa gravità sintomatologica. Le complicanze neurologiche più frequenti erano un’encefalopatia acuta, che si manifesta con delirium o disturbi di coscienza (25% dei casi), disturbi dell’olfatto o del gusto (20% dei casi), ictus ischemico (18% dei casi) e disturbi cognitivi (14% dei casi). L’incidenza delle complicanze neurologiche si è progressivamente ridotta nelle varie ondate della malattia, con una prevalenza di 8%, 5% e 3% rispettivamente nelle prime tre ondate. L’esordio dei sintomi si manifestava soprattutto nella fase iniziale di malattia, ma in alcuni casi vi era un esordio nelle settimane successive. Nella maggior parte dei casi vi era un buon recupero funzionale, anche se in molti casi si è assistito ad un persistere dei sintomi fino ad oltre sei mesi dall’infezione. Tra le complicanze neurologiche a distanza, che rientrano nel cosiddetto “Long-Covid”, prevalgono i disturbi cognitivi, caratterizzati soprattutto da difficoltà di attenzione e di memoria. Nel corso del congresso sono stati presentati i risultati di studi sui meccanismi biologici sottostanti, mediante l’utilizzo di tecniche di imaging (risonanza magnetica morfologica e funzionale), neurofisiologiche e con l’utilizzo di biomarcatori, cioè molecole rilasciate da cellule nervosa danneggiate e rilevabili nel liquido cerebrospinale e nel plasma».
Come per gli altri campi di ricerca coinvolti nello studio di questa nuova pandemia, anche la Neurologia ha messo in campo risorse e strumenti e soprattutto si è creata una collaborazione tra i centri che potrà portare a importanti risultati.
di Paola Trombetta