L’obesità è una “malattia cronica”: come si può curare?

In Italia sei milioni di persone sono obese, praticamente il 12% della popolazione adulta: un numero destinato a salire se non si interviene subito. È il dato allarmante presentato in occasione del 4° Italian Barometer Obesity Report, realizzato da IBDO Foundation in collaborazione con Istat, Coresearch e Bhave, con il contributo non condizionato di Novo Nordisk nell’ambito del progetto Driving Change in Obesity. A queste si aggiungono le persone in sovrappeso, più di 25 milioni, ovvero il 46% degli adulti e il 26 % tra bambini e adolescenti dai 3 ai 17 anni. Si osservano differenze di genere: tra gli adulti, le donne mostrano un tasso di obesità inferiore (11%) rispetto agli uomini (12,9 %); più marcata la differenza nei bambini e adolescenti, dove il 23,2 % delle femmine è in eccesso di peso rispetto al 29,2 % dei maschi. Anche a livello territoriale emergono significative differenze, a svantaggio di Sud e Isole, dove l’eccesso di peso è un problema più diffuso e preoccupa soprattutto tra i minori: sono ben il 31,9% al Sud e il 26,1% nelle Isole i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso, molti più rispetto al 18,9% dei residenti del Nord-Ovest, al 22,1% del Nord-Est e al 22% del Centro. Diseguaglianze territoriali che si confermano anche per gli adulti, tra i quali il tasso di obesità varia dal 14% al Sud e 13,6% nelle Isole, al 12,2% nel Nord Est, fino al 10,5% del Nord-Ovest e del Centro.

«L’obesità è una sfida irrisolta di salute pubblica, che condiziona la vita di troppe persone: i problemi di salute correlati si riflettono sulla qualità di vita, sui casi di assenteismo dal lavoro, sulla produttività, impattando sui bilanci economici delle famiglie e della spesa pubblica e sanitaria», spiega Paolo Sbraccia, Vicepresidente IBDO Foundation e Professore Ordinario di Medicina Interna dell’Università di Roma “Tor Vergata”. «Si stima che questa malattia provochi il 58% dei casi di diabete tipo 2, il 21% di cardiopatia ischemica e fino al 42% di alcuni tumori e sia la causa di 57mila morti all’anno nel nostro Paese». Il problema è che spesso si ha un’autopercezione errata e si fatica a riconoscere la malattia: infatti, l’11% degli adulti con obesità e il 54,6 % degli adulti in sovrappeso ritiene di essere normo-peso; lo stesso accade tra i genitori di bambini in sovrappeso o obesi, dove il 40,3 % ritiene i propri figli normo-peso. Sottovalutare le cause e le gravi conseguenze di questa malattia o convincersi che si risolverà con la crescita porta purtroppo a complicanze già in giovane età, con lo sviluppo di malattie croniche, come problemi di salute mentale, disturbi cardiaci, diabete di tipo 2, nonché alcuni tumori e problemi a scheletro e articolazioni.

L’obesità è una malattia multifattoriale in cui l’apporto alimentare e l’attività fisica svolgono un ruolo rilevante nella terapia. Per questo è importante insegnare e promuovere nella popolazione stili di vita sani. «Ad oggi il 33,7 % della popolazione italiana adulta (quasi 20 milioni di persone) non pratica né sport né attività fisica, con importanti differenze di genere (il 36,9 % delle donne contro il 30,3% degli uomini)», aggiunge Roberta Crialesi, Dirigente Servizio Sistema integrato salute, assistenza, previdenza e giustizia, Istat. «Tra i bambini poco attivi, il 59% delle madri ritiene che il proprio figlio svolga sufficiente attività fisica. Lo stesso accade per quanto riguarda l’alimentazione dove solo il 18% della popolazione adulta dichiara di consumare 4 o più porzioni di frutta e verdura al giorno, e tra le madri di bambini in sovrappeso, il 70% pensa che la quantità di cibo assunta dal proprio figlio non sia eccessiva».

«La prevenzione e gli interventi mirati su alimentazione e sport sono importanti nella lotta all’obesità, ma oltre a questo si ha la necessità di un approccio multidisciplinare per garantire un sostegno completo efficace», puntualizza Antonio Nicolucci, Direttore di Coresearch. «È importante combattere lo stigma sociale per far sì che sia considerata da parte dei governi, dei sistemi sanitari e delle stesse persone con obesità una malattia cronica che richiede una gestione di lungo termine e non solo una responsabilità del singolo. Oltre a incidere sulle cure e sui trattamenti per l’obesità e per lo sviluppo di nuove direttive politiche, potrebbe anche contribuire a ridurre la disapprovazione sociale e gli episodi di discriminazione verso chi ne è affetto».

«È giunto il momento di mettere in atto soluzioni di politica sanitaria che siano in grado di dare risposte concrete alle persone con obesità e soprattutto che coinvolgano e siano disponibili per l’intera popolazione, partendo dalla inclusione dell’obesità nel Piano Nazionale delle Malattie Croniche (PNC), a cui stiamo lavorando nella Cabina di Regia del PNC presso il Ministero della Salute, al fine di aumentare il supporto e anche diminuire le disuguaglianze di accesso alle cure sul territorio», precisa Andrea Lenzi, Coordinatore Italia dell’Obesity Policy Engagement Network (OPEN). «Dal report presentato si evince come sia presente una drammatica correlazione tra le aree più svantaggiate e periferiche della città e una maggiore prevalenza di obesità e come questo valore sia notevolmente aumentato negli ultimi 20 anni, durante i quali nelle aree metropolitane il valore è passato dal 6,8 all’ 8,8%, mentre nelle aree periferiche la percentuale è passata dall’ 8,2 al 12%. Per questo dobbiamo agire nelle zone più a rischio, rendendo il contesto urbano adatto a stili di vita sani e alla prevenzione secondaria, rafforzando la rete di servizi sociosanitari a disposizione di tutti».

«Auspichiamo che dare “voce” ai numeri dell’obesità nel nostro Paese possa contribuire ad alimentare il dibattito istituzionale sulla necessità di programmare interventi mirati in termini di prevenzione e cura: è essenziale individuare un disegno strategico per promuovere interventi centrati sulla persona con obesità e orientati verso una migliore organizzazione dei servizi e presa in carico, verso una piena responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti nell’assistenza, nella cura e nei trattamenti», aggiunge la Senatrice Daniela Sbrollini, Presidente Intergruppo parlamentare Obesità e Diabete. «La XIX Legislatura, da poco iniziata, dovrà valorizzare quanto ottenuto in precedenza e dare concretezza a quel “patto di legislatura” che declina sei obiettivi da perseguire: lotta allo stigma clinico ed istituzionale; riconoscimento dell’obesità come malattia cronica; stesura delle linee guida per l’obesità; garanzia di pieno accesso alle cure e ai trattamenti farmacologici per la persona con obesità; realizzazione delle reti regionali di assistenza per l’obesità; focus su obesità infantile-giovanile e di genere».

L’obesità parte (anche) dalla testa: dal “bernoccolo del goloso”, ai circuiti della “dipendenza da cibo”

La “radice cerebrale” del sovrappeso non è la stessa in tutte le persone e la comprensione della sua diversità rappresenta l’obiettivo fondamentale della ricerca futura verso la personalizzazione della prevenzione e cura dell’obesità. Ne hanno parlato gli specialisti in occasione del recente Congresso promosso dalla SIMI (Società Italiana di Medicina Interna). «Tutta la ricerca sull’obesità si è concentrata finora sull’aspetto che ha portato a considerare come un insieme omogeneo tutti i pazienti obesi, in contrapposizione ai normopeso», ha puntualizzato la dottoressa Patricia Iozzo, dirigente di Ricerca, Istituto di Fisiologia Clinica, CNR di Pisa e adjunct professor presso l’Università di Turku (Finlandia). «Non si è tenuto conto che, nella popolazione degli “obesi”, ci sono tante fattispecie e finora non abbiamo risultati su queste diversità».

Solo in questi ultimi tempi si stanno cominciando a prendere in esame sottogruppi diversi di pazienti con obesità per cercare di capire i meccanismi, le cause, ma anche quello che sollecita l’appetito, elementi che variano molto da un individuo all’altro. «Un filone di ricerca, ad esempio, sta prendendo in esame l’associazione tra struttura e funzioni del cervello delle persone con obesità e l’influenza della genetica. Uno studio ha dimostrato che i portatori di varianti del gene FTO, spesso associate all’obesità, presentano una struttura cerebrale particolare, cioè una riduzione di volume di alcune parti di cervello che esercitano un controllo di inibizione, di freno dell’appetito e sono legate anche alla memoria. Uno studio condotto al CNR di Pisa, in collaborazione con la Fondazione Monasterio di Pisa e con l’Università di Bologna (professor Uberto Pagotto) ha invece esplorato la funzione del cervello (attraverso la tomografia a emissione di positroni PET con glucosio) delle persone con obesità, andando a valutare quanto glucosio consumano alcune zone cerebrali quando le persone sono sollecitate con vista, odore e gusto di un particolare cibo “appetibile” rispetto ad uno neutrale.

«Abbiamo esaminato alcune donne in sovrappeso diverse tra loro per i risultati ottenuti in una scala di “dipendenza” dal cibo», ha puntualizzato la dottoressa Iozzo. «Nelle donne con atteggiamento di dipendenza abbiamo osservato un netto sbilanciamento tra le varie regioni cerebrali (quelle che portano a desiderare il cibo erano molto attivate alla visione del cibo appetibile, mentre quelle che portano a controllare questo impulso poco attivate). Questo non accadeva invece nelle persone con lo stesso sovrappeso, ma senza un atteggiamento di dipendenza nei confronti del cibo. In questo modo abbiamo dimostrato l’esistenza di uno sbilanciamento funzionale nella risposta metabolica del cervello che favorisce il desiderio a dispetto del controllo. Questo sbilanciamento è presente nel 61% dei casi».

Gli studi per ora sono fisiologia pura, ma in quello che sta emergendo si intravede la possibilità di un trattamento basato su queste scoperte. «Già oggi possiamo proporre alcuni interventi, in grado di migliorare la funzione del cervello e in parte anche la sua struttura: la perdita di peso, il tipo di dieta e l’esercizio fisico», conclude la dottoressa Iozzo. «La somministrazione di insulina direttamente nel cervello è un’altra terapia al vaglio, essendo l’insulina un ormone che inibisce l’appetito. Ma l’approccio più promettente, sembra essere lo studio del microbiota intestinale, che differisce da una persona all’altra. La manipolazione della dieta in maniera personalizzata e specifica per le caratteristiche di quella persona potrebbe rappresentare in futuro una risorsa».

Quali terapie “convinceranno” il grasso a “bruciare” sé stesso?

«Nell’uomo i tessuti adiposi formano un vero e proprio organo: il cosiddetto “organo adiposo endocrino», precisa il professor Saverio Cinti, direttore Centro dell’Obesità, Università Politecnica delle Marche (UNIVPM) di Ancona. «Quest’organo negli obesi è patologico perché l’ipertrofia (aumento di volume) delle cellule adipose induce la comparsa di un’infiammazione cronica. Questa infiammazione è causata dalla morte degli adipociti ipertrofici, che in questo modo lasciano tanti “detriti” che devono essere riassorbiti dall’organismo. Deputati a questa sorta di “pulizia” sono i macrofagi, cellule specializzate nella “rimozione dei detriti”, che però nello svolgimento del loro lavoro, producono sostanze che vanno a interferire con il recettore dell’insulina. E questo porta ad una ridotta funzionalità dell’insulina stessa (“resistenza” insulinica). In un primo tempo il pancreas cerca di compensare producendo più insulina, ma poi esaurisce la sua funzione; e il crollo dei livelli di insulina conseguente è alla base della comparsa del diabete di tipo 2. In particolare, le cellule del grasso viscerale (quello della pancia) muoiono prima di quelle del sottocute: ecco perché l’accumulo di grasso a livello viscerale, più tipico dei maschi, risulta più pericoloso da un punto di vista metabolico e facilita la comparsa di diabete tipo 2».

«La Commissione Europea ha riconosciuto l’obesità come una malattia cronica, recidivante e progressiva, non solo un fattore di rischio per malattie cardio-metaboliche, epatiche o respiratorie», ha puntualizzato il professor Giorgio Sesti, presidente della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI). «Le strategie terapeutiche basate sul cambiamento di stile vita sono state, negli ultimi anni, affiancate da farmaci efficaci e sicuri basati sugli agonisti del recettore del GLP-1 che si stanno arricchendo di nuovi poli-agonisti, che utilizzano due o tre molecole ormonali. Lo sviluppo di questi farmaci per la cura dell’obesità apre nuovi scenari non solo per il trattamento del sovrappeso, ma anche per i possibili benefici in termini di prevenzione cardiovascolare».

«Gli agonisti del recettore del GLP-1 o l’associazione di alcuni di essi, rappresentano al momento soluzioni farmacologiche molto efficaci e sicure per la perdita di peso e il suo mantenimento», spiega Paolo Sbraccia, professore ordinario di Medicina Interna e direttore del Centro Medico dell’Obesità del Policlinico di Roma Tor Vergata. «Queste nuove classi di farmaci nei soggetti con diabete riducono anche il rischio cardiovascolare, sia attraverso il calo ponderale, che attraverso effetti anti-aterogeni. I risultati dei trial in corso, disegnati per verificare se tali farmaci riducano il rischio di eventi cardiovascolari anche nei pazienti obesi, non diabetici, ci diranno se l’obesità dovrà essere inquadrata come un equivalente di malattia cardiovascolare. Indubbiamente l’obesità – prosegue il professor Sbraccia – è una malattia cronica, recidivante e progressiva (come stabilito anche dalla Commissione Europea) e questa accezione la colloca tra le malattie curabili con i nuovi farmaci, che hanno un profilo di efficacia e sicurezza maggiore. Questo non vuol dire che l’approccio multidisciplinare, la terapia cognitivo-comportamentale e nei casi più gravi la chirurgia bariatrica, verranno eliminati. Ma certamente il pilastro terapeutico della farmacoterapia è destinato a rinforzarsi, mentre lo spazio della chirurgia si andrà riducendo. Attualmente sono a disposizione farmaci molto validi come liraglutide a somministrazione quotidiana, che ha però un’efficacia limitata sul calo ponderale (la perdita di peso è inferiore al 10%). A breve però è atteso l’arrivo di semaglutide 2,4 mg, un GLP-1 agonista a somministrazione iniettiva settimanale, che consente di perdere oltre il 15% del peso corporeo. Sono in corso trial clinici sull’associazione semaglutide-cagrilintide che consentirebbe di superare anche la soglia 20% di perdita di peso iniziale».

Insomma, abbiamo molte prospettive nel campo della terapia dell’obesità: questi farmaci attivano una serie di ormoni che agiscono sia sull’apparato gastro-intestinale, che a livello centrale, nella regolazione del bilancio energetico. E quindi per i pazienti con obesità il futuro sarà migliore. Ma non mancano i problemi. Questi farmaci hanno un costo non indifferente e attualmente sono a carico del paziente. Certo la rimborsabilità, in un sistema che deve essere sostenibile, potrebbe non essere semplice da ottenere, ma magari a fronte dei risultati di questi trial clinici una fetta di popolazione potrebbe riuscire ad ottenerla».

di Paola Trombetta

 

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