Adriana Albini è una donna poliedrica, di raffinata intelligenza e grande talento professionale. Ma è anche una simpatica sportiva, con un curriculum di medaglie in campionati europei e mondiali di scherma. È pure moglie e madre esemplare di due figli: Thomas, esperto di video-report e Silvia, farmacologa affermata. Ed è anche scrittrice: ha pubblicato diversi romanzi, un mix di scienza e di thriller (“Un clone in valigia”, “La danza delle cellule immortali”, “Codice segreto”), ha scritto articoli per Repubblica nel settore Salute ed è Direttore Editoriale del Magazine internazionale Cancerworld. Come faccia a fare tutto ciò, con incredibile grinta e passione, è davvero un mistero! Affabile e sempre disponibile, la conosco da più di 20 anni (e ne sono molto onorata), da quando si è affacciata al mondo del giornalismo medico-scientifico. Ma la sua esperienza professionale e soprattutto le sue intuizioni nell’ambito della ricerca biomedica potrebbero essere degne di un Premio alla carriera. E non escludo che prima o poi questo riconoscimento le potrà essere assegnato…Ho scelto lei per rappresentare, nel giorno dell’8 marzo, una donna modello che si è distinta in campo biomedico e non solo, avendo di recente ottenuto anche il riconoscimento dalla BBC come l’unica italiana tra le 100 donne più influenti del mondo. Tra queste spiccano nomi famosi come Sanna Marin, primo Ministro della Finlandia, Jane Fonda, attrice americana, Nasrin Sotoudeh, attivista iraniana dei diritti umani.
Adriana ha un curriculum di eccellenza nell’ambito della ricerca biomedica, iniziato con una laurea in Chimica organica all’Università di Genova, proseguito con otto anni all’estero (Germania e Stati Uniti) e importanti incarichi professionali, tra cui la vicedirezione all’Istituto dei Tumori di Genova e la direzione del Dipartimento di ricerca e statistica dell’IRCCS Reggio Emilia. È poi diventata Direttore Scientifico della Fondazione MultiMedica Onlus e oggi è approdata all’IRCCS IEO-Istituto Europeo di Oncologia di Milano ed è docente all’Università di Milano-Bicocca. Come è nata la tua passione per la ricerca scientifica?
«In realtà è nata molto presto, fin da bambina e mia mamma, insegnante di matematica a Venezia, mi ha spronato a coltivarla. Quando ero in spiaggia in estate a Venezia, guardavo con interesse la vita degli esseri marini, dalle alghe, ai pesci, ai granchi. Mi piaceva capire i meccanismi della vita che poi ho affrontato dal punto di vista non della biologia, ma della chimica, sviscerando le componenti primordiali della cellula. Dopo il liceo scientifico frequentato a Genova, dove mio padre era titolare della Cattedra di Greco, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Chimica organica, con indirizzo biologico. Fin da allora mi interessava capire cosa c’era dentro le molecole, i primi mattoni della cellula. In Italia in questo settore si conosceva ancora poco. Appena laureata, a 25 anni, mi sono trasferita all’Istituto Max Planck di Biochimica di Monaco di Baviera, avvantaggiata dalla buona conoscenza della lingua tedesca che avevo studiato per tre anni e dalla vincita di una borsa di studio (ne avevano bandite due in tutto), per approfondire gli aspetti della chimica delle cellule, delle proteine. Lì sono rimasta per cinque anni e poi sono rientrata in Italia per sei mesi, ma l’ambiente della ricerca biomedica all’epoca era ancora arretrato nel nostro Paese. In Germania avevo conosciuto un professore dell’Istituto Superiore di Sanità americano (NIH- National Institute of Health) che mi aveva proposto di trasferirmi a Washington. E con la mia valigia, piena di buona volontà, ero approdata a 29 anni negli States! E lì ho trovato un ambiente davvero molto stimolante dal punto di vista scientifico e una mentore donna eccezionale, Hynda Kleinman. E ho trovato anche l’amore, avendo conosciuto un collega, che si occupava in particolare di immunologia, Douglas Noonan, che è diventato poi mio marito. Col mio team di ricerca in quell’epoca sono riuscita a vincere un premio di 100 mila dollari, suddiviso con i miei collaboratori, per aver riprodotto una “metastasi in provetta” ovvero una matrice artificiale che riproduce in vitro l’azione delle cellule tumorali che sviluppano metastasi. Uno studio che ottenne addirittura il riconoscimento sulla rivista Cancer Research come la migliore pubblicazione dell’anno (era il 1985), successo riportato in una mostra commemorativa dei 100 anni della prestigiosa rivista».
Una scoperta davvero importante che immagino abbia poi trovato applicazioni anche nello studio di terapie per i tumori.
«Effettivamente questi miei studi hanno trovato applicazioni nella ricerca di nuove terapie per bloccare la crescita dei tumori. Questa matrice è molto semplice: da una parte c’è una membrana basale e dall’altra un ipotetico organo bersaglio (proteine, fattori di crescita). E questo modello serve per capire come una cellula sia in grado di attraversare una barriera di tessuto: in realtà è quello che succede nel corpo umano quando c’è una metastasi che sconfina da un organo all’altro, attraverso i capillari. Il brevetto di questa scoperta apparteneva all’NIH, dove all’epoca lavoravo, ma è stato poi acquistato da un’azienda che lo utilizza tuttora. In particolare questo modello serve per studiare possibili farmaci antitumorali e impedire la formazione di metastasi. In più si possono confrontare le risposte di cellule cancerogene differenti: quelle in grado di passare questa barriera e quindi di originare metastasi, e quelle che invece si fermano. Questo è stato il primo modello riproducibile in laboratorio in grado di documentare il meccanismo di diffusione delle metastasi».
Dopo questo tuo primo successo professionale, a soli 29 anni, a quali altri progetti ti sei dedicata?
«Negli anni successivi mi sono occupata di studiare il “microambiente” in cui si sviluppano le cellule tumorali: agendo su questo terreno di crescita, si possono anche bloccare i meccanismi di riproduzione delle cellule tumorali. E’ questo il principio base di quella che diventerà poi l’immunoterapia. In particolare all’epoca studiavo le “proteasi”, che sono molecole presenti nelle cellule tumorali che agiscono come delle forbici per aprirsi il varco dei tessuti circostanti. Bloccando queste molecole, si poteva limitare la diffusione delle cellule tumorali. Poi mi sono occupata delle possibili reazioni del sistema immunitario contro i tumori. Ho orientato i miei studi su alcune proteine, dette PDL, già scoperte da James Patrick Allison che per questo aveva ottenuto il Premio Nobel per la Medicina nel 2018, in grado di “ingannare” il sistema immunitario. Bloccando queste proteine, il sistema immunitario, in particolare i linfociti T, riescono a riconoscere ed agire contro le cellule tumorali. Oggi l’immunoterapia è particolarmente efficace in alcune forme tumorali, come il melanoma e il tumore al polmone, e via via viene utilizzata in altri tumori. Per tanti anni mi sono occupata delle cellule “natural killer”, presenti nel sistema immunitario, in grado di eliminare direttamente le cellule considerate nemiche. Con altri ricercatori italiani, due anni fa abbiamo pubblicato uno studio su Cancer Discovery, un’importante rivista internazionale. Nel periodo pandemico mi sono occupata di studiare il processo infiammatorio provocato da Sars Cov-2, analizzando in particolare l’interleuchina 10 che è un antinfiammatorio naturale prodotto dall’organismo a contatto con il virus, insieme alle mie preziose giovani collaboratrici Luana Carlone e Valentina Carlini e una scienziata nel campo dell’infettivologia, Delia Goletti ».
Oltre allo studio delle metastasi e dei processi infiammatori, ti sei anche interessata alla prevenzione dei tumori. Non a caso hai ricevuto la nomina di responsabile del prestigioso Gruppo di Lavoro sulla Prevenzione dell’American Association For Cancer Research (AACR), Ci potresti spiegare qualcosa su alcuni principi attivi che hai studiato e potrebbero agire nella prevenzione dei tumori?
«Le mie ricerche sono iniziate dalle metastasi. Ma strada facendo mi sono detta che forse sarebbe stato meglio occuparmi di “prevenire” la formazione dei tumori. L’idea era di contrastare la comparsa dei tumori, rendendo più sano l’organismo. Per questo ho studiato alcune sostanze, come un polifenolo derivato dal luppolo (xantoumolo), simile, ma più potente, del resveratrolo, contenuto invece nell’uva. La sua attività è prevalentemente antinfiammatoria, analoga ad alcuni polifenoli del tè verde ed altri ricavati dalla parte acquosa dell’olio d’oliva: da quest’ultima sostanza è stato prodotto da un’azienda un nutraceutico (oliphenolia) che viene utilizzato come antiossidante. Ho anche studiato con il mio team di MultiMedica alcuni estratti di alghe diatomee (diatoxantina), più simili al carotene perché ricche di vitamina A, di cui è stato pubblicato un recente lavoro sulla rivista Antioxidant in collaborazione con la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, con la quale collaboro tuttora, con un’altra giovane e bravissima ricercatrice, Clementina Sansone. Un centro che ha avuto l’onore di ospitare per un breve periodo anche i Premi Nobel Watson, Crick e Wilkins, ai quali si deve la scoperta della struttura della doppia elica del DNA». Ho avuto, fin dal mio primo ingresso nell’associazione americana, il supporto di una grande leader Margaret Foti, Presidente di AACR .
Una buona premessa, potremmo dire, per un percorso scientifico che potrebbe magari portarti sulla strada di un futuro riconoscimento alla carriera in Italia o nel mondo, considerando le tue importanti ricerche… Hai mai incontrato qualche Premio Nobel?
«Posso dire di avere conosciuto diversi Premi Nobel. Prima fra tutte Rita Levi Montalcini, di cui sono diventata amica. Il mio responsabile di allora, professor Leonardo Santi dell’Istituto dei Tumori di Genova, inviò alla Montalcini il mio libro: “Il clone in valigia”, dove parlo delle mie ricerche biomediche, della mia esperienza professionale in America, dell’incontro con mio marito. Evidentemente era rimasta ben impressionata, tanto che mi ha voluta conoscere e mi ha invitata a casa sua a Roma. Poi è venuta a trovarmi all’Istituto dei Tumori di Genova ed era molto interessata alle mie ricerche sulla formazione delle metastasi. Negli Stati Uniti ho avuto l’opportunità di conoscere anche Elisabeth Blackburn, Nobel nel 2009 per aver scoperto il meccanismo che sta alla base dell’invecchiamento dei cromosomi. E poi ho conosciuto Emmanuelle Charpentier che ha vinto il Nobel nel 2020 per gli studi sulle cellule CAR-T, in grado di correggere il genoma mutato, che hanno dato un contributo importante all’immunoterapia. E più di recente ho conosciuto Jim Allison, inventore dell’immunoterapia basata sul “Check-point”».
Tra i tanti Premi Nobel in ambito scientifico, le donne sono solo una dozzina, nonostante gran parte delle ricercatrici in campo biomedico sia donna. Tu stessa ti sei sempre circondata prevalentemente da donne nei tuoi team di ricerca. Per molti anni hai fatto parte dell’Associazione Women in Cancer Research di AACR: hai ideato e sei presidente di TIWS (Top Italian Women Scientists), il club delle scienziate italiane in campo biomedico dell’Osservatorio Salute Donna e di Genere Onda, presieduto da Francesca Merzagora. E ora sei pure stata riconosciuta tra le 100 donne più influenti del mondo! Non ti sembra che le donne siano ancora discriminate nella carriera professionale, nonostante siano particolarmente portate per la ricerca. Sta cambiando qualcosa in questo ambito? Cosa auspichi per il futuro delle donne nella ricerca biomedica?
«Le donne sono molto interessate alla ricerca e le seguo volentieri perché hanno una maggior precisione, sono più metodiche, e più portate per le attività nei laboratori. Inoltre sono più solidali e si aiutano a vicenda. Spesso gli uomini sono più arrivisti e individualisti e non è infrequente il caso che, per primeggiare, non sono per nulla collaborativi con il resto del gruppo. Le donne riescono ad affermarsi con naturalezza e sono più motivate: lo notavo anche con le studentesse quando insegnavo alla Bicocca. Purtroppo ancor oggi ai vertici della ricerca c’è ancora molta discriminazione. Alla direzione dei principali Istituti Scientifici le donne sono meno del 10% (3 o 4 su oltre 50 Direttori Scientifici). All’Università la loro presenza è aumentata solo negli ultimi anni: alla Bicocca, ad esempio, c’era Cristina Messa, poi nominata Ministro dell’Università e della ricerca durante il Governo Draghi e dopo di lei è stata eletta Rettrice un’altra donna, Giovanna Iannantuoni. Tutte noi cerchiamo di reagire a questa discriminazione e come TIWS, Club di scienziate italiane di Onda, stiamo cercando di portare avanti le carriere di genere. All’Istituto Mario Negri, diretto dal professor Silvio Garattini e poi dal professor Giuseppe Remuzzi, ci sono due donne che ricoprono importanti incarichi nei dipartimenti di ricerca: Raffaella Giovazzi e Ariela Benigni. Anche le Società scientifiche che si occupano di problematiche femminili sono ancora monopolio maschile. Cerchiamo di portare avanti una rivendicazione di genere, attraverso congressi annuali in ambito biomedico, tra cui uno promosso in collaborazione con ONDA e un altro con l’Università di Reggio Emilia, dove le presentazioni scientifiche vengono fatte da donne ricercatrici ad alto impatto. Facciamo anche attività di mentoring a livello di liceo e universitario con le studentesse per incoraggiarle a intraprendere questo percorso di ricerca» .
Come ultima domanda, dopo aver elencato tutte le tue ricerche e gli importanti incarichi professionali ricoperti, ti chiedo come riesci a conciliare la tua intensa attività con la vita privata? Sei felicemente sposata, hai due figli e pratichi uno sport impegnativo come la scherma, conquistando medaglie da professionista senior in questa disciplina sportiva. Per non parlare della tua passione per la scrittura e dei tuoi romanzi…
«La scherma è sempre stata la mia passione fin dai tempi del liceo. Offrivano un corso gratuito per avvicinare gli studenti alla scherma: ho provato e avevo vinto il campionato sociale di fine anno che mi ha stimolato a continuare. E l’ho praticata fino a 25 anni. Ho avuto molte soddisfazioni perché per un’estate sono stata allieva del maestro Ezio Triccoli, che è stato anche l’allenatore della Vezzali e della Di Francisca, uno dei più grandi maestri di fioretto femminile. Poi ho interrotto per tanti anni e ho ripreso nel 2006 nella categoria senior. Ho avuto molte soddisfazioni perché ho vinto 4 medaglie: argento nel Campionato Europeo del 2015, Bronzo nel Mondiale 2018, bronzo in una prova di qualificazione a Londra nel 2020 e nei giorni scorsi ho vinto l’oro in una prova di qualificazione nel circuito europeo a Santander in Cantabria. Cerco di mantenermi sempre in forma, allenandomi due giorni alla settimana, dalle 20 alle 22, cercando di conciliare lavoro e carriera anche con la famiglia. Mi sono sposata e ho due figli: Thomas, che si dedica alle riprese video e Silvia, che si è da poco sposata, e ha seguito le mie orme, essendosi laureata in Chimica farmaceutica e lavorando in questo settore. In tutto questo sono stata molto aiutata da mio marito Douglas Noonan, anche lui ricercatore nel settore biomedico, che ho conosciuto a Washington. Sul nostro connubio affettivo e professionale ho scritto il libro “Un clone in valigia”, in cui racconto come l’ho conosciuto e come abbiamo portato avanti insieme alcune ricerche, in particolare nel settore delle “natural killer”, essendo mio marito un immunologo. Lavorare in coppia ha indubbiamente i suoi vantaggi, ma a volte rischia di diventare un po’ totalizzante. Capita spesso che trascorriamo i fine settimana lavorando, sviluppando alcune idee che magari ci vengono in mente. E il lavoro diventa quasi un hobby, che viene condiviso reciprocamente. E questo rafforza indubbiamente la nostra unione».
di Paola Trombetta