Gli occhi scuri di Lina Sastri si illuminano, hanno lampi di luce e bagliori ardenti. Stanca e soddisfatta, la intervistiamo all’indomani di un periodo molto intenso e ricco di soddisfazioni. Si sono appena concluse le riprese per le strade della sua amata Napoli di “La casa di Ninetta”, il film, in via di montaggio, che segna il passaggio anche alla regia cinematografica, in cui interpreta il ruolo di sé stessa. Tratto dall’omonimo libro “scritto di getto” qualche tempo dopo la morte della madre Ninetta, è già stato adattato come spettacolo teatrale. «Ho cercato di riassumere in poche pagine tutto l’amore e la disperazione che provavo per lei, prigioniera di una malattia senza scampo come l’Alzheimer. Il film è una storia di donne, raccontata da donne. Madri e figlie, vecchie e giovani, tutte ruotano intorno alla figura di Ninetta, carismatica e piena di ricordi che via via si confondono a causa di una malattia che non concede speranza». Subito dopo aver girato questo film, l’attrice napoletana è partita per Milano per portare in scena al teatro Ciro Menotti la sua Maddalena: della salvezza (dal 28 febbraio al 5 marzo), una tra le potenti figure femminili che Lina Sastri ha interpretato nella sua brillante e pluripremiata carriera, che si divide tra cinema, teatro e musica. Partita dall’incontro fatale con il grande Eduardo De Filippo, un incontro timido all’inizio, fatto di poche battute in scena, fino alla grande occasione di Natale in casa Cupiello nel ’77; la Maddalena ne completa il quadro. A cui si aggiunge l’importante riconoscimento del Premio alla carriera, che verrà conferito durante la cerimonia di chiusura di “Sguardi Altrove Film Festival”, la manifestazione dedicata alla promozione del cinema a regia femminile (Patrizia Rappazzo alla direzione artistica) giunta alla sua 30ª edizione, che si terrà a Milano dal 10 al 18 marzo. “Un riconoscimento che voglio dedicare a tutte le donne che si impegnano per migliorare questo mondo: rischiando, osando, creando, combattendo coraggiosamente con il cuore”, ha commentato la stessa artista appena ricevuta la notizia.
Lina, cominciamo dall’ultimo spettacolo della Maddalena: ce ne vuoi parlare?
«Il racconto è appassionato e spietato, come la scrittura magnifica di una Marguerite Yourcenar, assolutamente ardente, allora trentaduenne, innamorata follemente, ma non corrisposta, del suo editore André Fraigneau. È un canto poetico in cui prende forma una storia d’amore dolorosa e appassionata. Maria Maddalena ormai vecchia e saggia, carnale e mistica, ripercorre il doppio abbandono che segnò la sua vita: quello dell’apostolo Giovanni, promesso sposo che la lascia la prima notte di nozze per seguire la voce di Dio, e poi quello di Gesù, che si sottrae alla vita per compiere il suo destino di Salvatore, lasciandola di fronte a un altro letto vuoto, quello del sepolcro. Una passione di cui viene privata, che la condanna a un destino di solitudine e di infelicità».
Maria Maddalena ha un sottotitolo: “o della Salvezza”
«In realtà Maria Maddalena non si salva. Ama intensamente, ama con il corpo. Anche i Vangeli la raccontano come peccatrice pentita che lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime, asciugandoli con i lunghi capelli per poi cospargerli di un unguento profumato, e non cessava di baciarli. Quando Maddalena scopre il sepolcro deserto e la resurrezione di Cristo, sperimenta in sé una solitudine ancora più profonda e definitiva e afferma: “ero di nuovo più vuota di una vedova, più sola di una donna abbandonata”. La passione di Maria Maddalena è la sofferenza di un desiderio insoddisfatto. L’eco del dolore è vivido e intenso nei suoi occhi, nelle sue parole, nel canto che passa dal disperato al liberatorio, in una nuova ricerca di sé. Paradossalmente vince sul rifiuto, elevandolo quel sentimento carnale, irraggiungibile nella sua compiutezza, a una forma di dedizione e di fede nell’Assoluto».
Nella tua lunga carriera hai sempre interpretato donne cariche di passione, compiendo un percorso inquietante e profondo nell’animo femminile…
«Passione deriva da patire, soffrire. Noi parliamo della passione di Gesù Cristo, della passione di Giovanna d’Arco. L’amore diventa passione quando implica tensione, sofferenza. È una sete inestinguibile che rinasce ogni istante, senza darti tregua. L’amore-passione è come una follia. Comprendo benissimo, quando si viene rapiti dalla passione: si può rimanere bruciati e affascinati da quel fuoco. Marguerite Yourcenar, nel suo monologo Fuochi, descrive la figura di Maria Maddalena facendole dire una frase per certi aspetti enigmatica, che mi induce alla meditazione: “Quando conobbi la passione, dimenticai l’amore”. La passione è qualcosa che ormai si vive di meno, perché si ha sempre più paura di abbandonarsi ai sentimenti. E di cadere in una relazione “tossica”. Per questo trovo la Maddalena così straordinariamente attuale. In qualche modo lei incarna quell’oscura generosità femminile che si dà senza riserve. Una resa incondizionata, fino al sacrificio di sé. Una resa per l’appunto che oggi fa molto paura. Hai notato che nella canzone classica napoletana nessuno dice “Ti amo”? Prova a pensarci: da Reginella a Te voglio bene assaje, da Torna a Surriento a ‘O Surdat Nnammurato: nessuna contiene le parole “Ti amo”. In napoletano diciamo “Te voglio bbene”: è un’espressione di un altruismo straordinario, perché incarna il vero senso dell’amare: la generosità».
La Maddalena però ha un passato da prostituta…
«Sai la prima immagine che mi viene in mente quando dici “prostituta”? Quando da bambina, passando per una strada povera nella zona della ferrovia, dove c’erano le prostitute, chiesi a mia mamma Ninetta chi fossero quelle donne, e lei mi rispose: “sono dame di carità, regalano l’ammore”. Prostituta redenta, visionaria, modello spirituale, sposa o compagna del Signore. Nel corso di due millenni, la figura di Maria Maddalena è stata vista secondo prospettive eterogenee e riflette il modo in cui le varie culture concepiscono il ruolo della donna, con tutte le sfaccettature del femminile in un unico personaggio…».
Avevi già interpretato il ruolo di Maria di Magdala per L’inchiesta di Damiano Damiani (1987) con il quale hai vinto un David di Donatello per la migliore attrice non protagonista.
«Un film che si avvale di una brillantissima idea narrativa: applica la struttura del giallo poliziesco al mistero della Resurrezione. Tiberio invia un investigatore in Giudea, per indagare sulla misteriosa scomparsa del corpo di un giovane chiamato Gesù, di cui sarebbe stata testimone una donna di Magdala e decide di rintracciarla per sapere da lei dove si fosse nascosto. Anche Maria è un personaggio che si ripresenta continuamente nel mio percorso di attrice. Ho avuto l’onore di interpretare addirittura la Madonna. Ho debuttato in Masaniello con la Madonna del Carmine (9 agosto del 1974) e sono stata Maria, madre di un Cristo dei giorni nostri, ne le Nozze di Laura un film TV di Pupi Avati (2015) che non è altro che la parabola delle nozze di Cana ambientata ai giorni nostri, in Calabria».
In passato hai dichiarato di volerti fare suora. Ma poi hai cambiato idea…
«È vero, da ragazzina pensavo di avere questa vocazione. Frequentavo la scuola delle suore di Ivrea, a corso Malta: ho vissuto la mia infanzia in un luogo dove si respirava il senso dell’assoluto di Dio, che alla fine ho sublimato nell’arte. Si organizzavano recite ed io ero la prima ad essere convocata. Essere artista è una specie di vocazione religiosa, necessita di dedizione assoluta. Sono una persona che crede in Dio e sono convinta che la fede non vada spiegata. Il mio rapporto con la religione non è formale: cerco sempre di non fare male alla gente e attribuisco un gran valore alla presenza di Dio su questa terra».
Quando è cominciata la tua passione per il teatro?
«Avevo 17 anni: dopo la maturità dissi a casa che volevo fare l’attrice e andai via. Senza niente, senza un soldo. Ma ero felicissima: con me c’era un ragazzo, attore anche lui, il primo amore. Vivevamo a Roma in un sottoscala, senza acqua calda».
“L’amore è un castigo: veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli. Amare a occhi chiusi significa amare come un cieco. Amare a occhi aperti significa amare come un folle…”, scrive la Yourcenar.
«Per quanto mi riguarda, ho sempre messo l’amore al primo posto: vivo l’amore come una cosa necessaria, non capisco una vita senza amore. Non ho avuto la fortuna di avere figli e in questo momento non ho nemmeno un uomo accanto a me, ma forse proprio per questo sono convinta che la vita sia amore, condivisione, godere insieme di piccole cose. Oggi sono sola e non mi piace, ma mi ci sono abituata, pericolosamente abituata. Penso che a lungo andare la solitudine ci renda prigionieri di noi stessi e delle nostre abitudini».
Hai avuto lunghe relazioni nel tuo passato? E ora saresti ancora disposta ad innamorarti?
«La passione esplose con Kocochinski, pittore e scultore, l’incontro del destino. Cantò una sua canzone: “Com’è bello il mare”. Lo conobbi così. Alessandro si mise a disegnare un Nettuno triste con un cavalluccio marino che ero io. Dopo sposò una donna meravigliosa che ha avuto accanto fino all’ultimo giorno di malattia. Era cieco, pieno di sofferenze. Andarsene, per lui, fu una liberazione. Mi sono anche sposata in Chiesa, con l’abito bianco, all’improvviso, come un azzardo, con un ballerino argentino. Avevo 35 anni. Ero disposta a guardare il baratro e buttarmi dentro. Oggi vorrei innamorarmi ancora: vivere senza amore è una condizione non umana. Dentro, so che i miei occhi sono aperti. Il problema è che di cavalieri nun ce stanno cchiù. Mi tengo stretto un solo, inalienabile dono: l’affetto della gente».
E ora vorrei parlare di tua madre Ninetta, imprigionata da una malattia che non le ha lasciato scampo, protagonista del prossimo film che ti vede come attrice e regista insieme.
«Mia madre era straordinaria: aveva il dono dell’armonia, della leggerezza che era riuscita a conservare, nonostante i tanti dolori. Era una donna poverissima, quasi analfabeta, eppure colta e sapiente. Nella mia mente è indelebile quella Ninetta che cantava mentre era indaffarata nelle faccende domestiche e che io, bambina, ascoltavo incantata. L’ho registrata sai, la sua voce: quando da vecchia mi assecondava, la sua voce e la sua musica mi hanno accompagnata ovunque. Anche quando ha avuto quella terribile malattia che umilia il corpo e lo spirito, ho visto fino alla fine una luce nei suoi occhi: credo che abbia conservato dentro di sé il senso più profondo delle cose».
Che rapporto hai con il tempo?
«Anche se lo specchio mi fa capire che il tempo passa, dentro di me il tempo non esiste. Non a caso ho voluto intitolare il libro appena pubblicato proprio così: “Il tempo non esiste”: trent’anni di vita artistica di Lina Sastri, fotografati da Carlo Bellicampo. Tutto è presente e, al tempo stesso, niente è presente. Io non ricordo nulla, perché non ho un senso del passato: ho solo una memoria affettiva delle cose e delle persone. Ho solo una sensazione interiore di maggior paura perché mi sento più fragile, accompagnata però da un piccolo distacco. Vivo con l’incoscienza di non sapere, con il rischio di osare, con la voglia di assecondare il mio istinto, il cuore e soprattutto con l’urgenza di fare…».
di Cristina Tirinzoni
Foto di C. Bellincampi