Scatta, guarda, “ritocca”, posta. Una dinamica che accomuna la gran parte degli utilizzatori dei social, desiderosi di condividere sul proprio profilo e sui canali più frequentati e seguiti dai follower – WhatsApp, YouTube, Instagram, TikTok – immagini perfette. Specie se il soggetto in primo piano è il volto, di cui si fa un vero book di scatti su scatti, prima di arrivare a trovare l’immagine giusta, degna di strappare un “like”. Ecco che allora prima si procede con un ritocco reale, a colpi di pennello, o virtuale con quel filtro che dona una luce speciale agli occhi o che esalta un particolare del volto. Per raccogliere un consenso dalla community? Forse. Per piacere più a sé stessi con quel volto “filtrato”? Magari. Perché quell’immagine virtuale rispecchia ciò che si vorrebbe essere, ma non si è? Possibile. Perché tanti giovanissimi, ancora minorenni, si sentono spinti a dover “manipolare” il proprio volto, ritratto con un selfie da altri o un autoritratto? Questo atteggiamento nasconde forse una fragilità, un’identità a caccia di sé stessa, un disagio psico-emotivo, un disadattamento sociale? Un bisogno di rispondere più all’apparire che all’essere? Sono domande, dinamiche, effetti e ripercussioni studiati in SatisFACE, un innovativo progetto del CUSSB (Centro Universitario di Statistica per le Scienze Biomediche) dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano che intende analizzare la percezione che i giovani in età pre e post adolescenziale, hanno dell’immagine del proprio viso (Face) e la relazione tra questa e il mondo digitale, con l’intento di promuovere il digital wellbeing, il “benessere” che deriva da un uso responsabile delle tecnologie.
La ricerca, uno studio pilota, è stata condotta su 120 adolescenti, tra 12 ai 16 anni, per stimare la frequenza e le modalità di utilizzo dei social e comprendere come i giovani gestiscono la loro immagine nelle foto. Nell’ordine WhatsApp (92.5%), Tiktok (88.3%), Instagram (76.7%) e YouTube (75%) sono i social sui quali il 65.9% dei partecipanti trascorre fino a 4 ore (37.5%, da 2 a 4 ore) del proprio tempo. Il 57.1% è ormai avvezzo all’uso, cominciato 2-4 anni prima, e considerando il campione costituito per la maggior parte da studenti di 12-13 anni (71.7%), vuol dire che l’esposizione, per alcuni, è iniziata già intorno ai 10 anni. Un dato, anche anagrafico, da non sottostimare, soprattutto in termini di “sicurezza” per il fatto che i giovani in larga misura “seguono”, sono cioè follower di amici/influencer/sportivi, invece di “essere seguiti”; dunque non sempre sono in grado di valutare i messaggi con il giusto “filtro” critico. Si rileva poi un’associazione tra la “manipolazione” dell’immagine del proprio volto e la preoccupazione per la percezione della propria immagine corporea (misurata tramite la Body Esteem Scale), il piacersi o non piacersi, a sé e agli altri.
Uno stato emotivo tanto più probabile nei giovani che trascorrono più di 4 ore (34.2%) sui social. Tant’è che, secondo l’indagine, solo il 25.4% dei partecipanti è soddisfatto del proprio “apparire” al primo scatto e solo il 22.9% finirà col pubblicarlo sui social, mentre il 36.8% dichiara di eliminare dai 2 ai 5 selfie prima di trovare quello che soddisfa l’immagine che hanno di sé. Da ultimo, poco meno della metà dei ragazzi (49.2%), fa editing delle foto: le ritocca con l’app “Foto” del telefonino, o in misura molto minore tramite App dedicate, come Facetune, VSCO, YouCam Makeup.
«Lo studio – spiega la professoressa Chiara Brombin, coordinatrice di SatisFACE, associata di Statistica presso la Facoltà di Psicologia di Università Vita-Salute San Raffaele e coinvolta nelle attività di ricerca del Centro Universitario di Statistica per le Scienze Biomediche (CUSSB) – evidenzia come i ragazzi utilizzino i filtri di editing, in maniera giocosa e per migliorare gli aspetti delle foto, con ritocchi di luci e ombre o contasti di colore. Sembrano inoltre consapevoli degli effetti che un utilizzo non appropriato delle foto condivise nei social può produrre, ad esempio che vengano “manomesse o ritoccate” per finalità diverse da quelle originarie. Viene riportata una web-related anxiety, legata proprio alla consapevolezza dei rischi della condivisione. L’intento del nostro studio è quindi valutare se queste azioni virtuali compiute sull’immagine possano avere qualche impatto sulla (in)capacità dei ragazzini, adolescenti e pre-adolescenti, di distinguere il sé reale dal sé virtuale o se vi possano essere ripercussioni, a livello relazionale o emotivo, con i pari che utilizzano lo stesso mezzo, l’immagine “filtrata”, per apparire più appealing».
Il filtro, infatti, può diventare lo strumento per alcuni giovani, più fragili o già insicuri della propria immagine, per mettere a tacere il timore o l’ansia del confronto: farsi selfie, modificarli e manipolarli digitalmente, confrontare online il proprio aspetto con quello degli altri, non solo tra pari ma anche riferimenti e modelli più “distanti”, potrebbe alterare le aspettative e le preoccupazioni per il proprio aspetto fisico nella vita reale e alimentare il circolo vizioso che può portare allo sviluppo di disturbi più strutturati, come depressione o un’ansia conclamata. «Il nostro obiettivo – commenta la professoressa Valentina Tobia, associata di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione e membro del Child in Mind Lab, Università Vita-Salute San Raffaele – è identificare e intercettare i ragazzi più vulnerabili, dunque più esposti al rischio di sviluppare comportamenti non corretti verso la propria immagine o utilizzo dell’immagine digitale. Sono anche i ragazzi che hanno maggiore bisogno di un confronto “educativo” con l’adulto».
Le informazioni emerse dallo studio serviranno anche a sviluppare iniziative di formazione dedicate a insegnanti, genitori, clinici e agli adulti che vivono a stretto contatto con i giovani, affinché siano preparati a rispondere alle richieste dei ragazzi e a intercettare i disagi che possono associarsi a un utilizzo non corretto dei canali social. E, dall’altro lato, fornire ai giovani gli strumenti per conoscere i rischi e gli aspetti rilevanti da tenere sotto controllo o quelli utili per fare un networking costruttivo tra pari. Ogni aspetto, compresa la tecnologia, ha il lato buono. E anche i social non sono sempre da demonizzare.
di Francesca Morelli