«Davide aveva solo due mesi quando il pediatra notò che fegato e milza erano ingrossati, ma disse che era normale nei bambini piccoli. Col passare degli anni cominciarono ad apparire lividi in alcune parti del corpo e una stanchezza continua, oltre a dolori alle ginocchia che gli impedivano di praticare qualsiasi sport. Ma il pediatra continuava a trascurare questi problemi che attribuiva a svogliatezza e pigrizia. Anche gli specialisti di un ospedale a cui mi ero rivolta a Firenze, la città dove vivevo, avevano sottovalutato il problema. Non mi sono mai data per vinta: dopo diversi anni in cui i sintomi persistevano, mi sono rivolta all’Ospedale Meyer, dove finalmente siamo riusciti ad avere la diagnosi: Davide soffriva di Malattia di Gaucher, una patologia genetica causata dalla carenza di alcuni enzimi, in particolare della “glucocerebrosidasi” che provoca l’accumulo di sostanze, dette appunto “cellule di Gaucher”, soprattutto nel fegato, nella milza e nel midollo osseo, che alterano la funzione di questi organi e tessuti fino a un danno irreversibile. Questa diagnosi fu uno shock, anche perché non avevamo mai sentito parlare di questa malattia e di altre simili, denominate “Malattie da accumulo lisosomiale”, di cui all’epoca, 40 anni fa, non esistevano terapie. Trattandosi di una malattia su base genetica, anche mio marito ed io avevamo fatto i test ed entrambi eravamo portatori sani del gene mutato. In particolare mio marito aveva un tipo di mutazione che era determinante nella comparsa della patologia di nostro figlio: per fortuna si trattava di una forma di tipo 1, ovvero non particolarmente grave. Dopo aver effettuato i test genetici anche ai fratelli e ai nipoti di mio marito, abbiamo scoperto che un nipote era portatore della stessa mutazione e purtroppo ha avuto una bambina, morta a 7 mesi, perché aveva la forma più grave di tipo 2. All’epoca non esistevano in Italia terapie mirate. Nonostante questo, non mi sono mai data per vinta. Lavorando all’epoca all’Osservatorio Astronomico di Firenze con il professor Franco Pacini, tramite il suo aiuto di conoscenze a livello internazionale e le ricerche effettuate su Internet, sono entrata in contatto con un celebre specialista di questa patologia che lavorava a Tel Aviv, dove già si sperimentava una terapia enzimatica che poi arrivò anche in Italia. Si trattava di un’infusione dell’enzima che mancava a mio figlio: con questo farmaco in pochi mesi, i sintomi si attenuarono, fino a scomparire del tutto. Oggi Davide ha 40 anni e lavora come grafico pubblicitario a Milano, dove si sottopone ogni 15 giorni a questa infusione di enzimi che gli hanno salvato la vita. Per questo ritengo fondamentale avere la possibilità di una diagnosi precoce di queste malattie “da accumulo lisosomiale”, le cui terapie, oggi esistenti, possono davvero salvare molte vite!»
Il racconto di Fernanda Torquati, oggi presidente dell’Associazione Italiana Gaucher, conferma l’importanza di individuare precocemente queste malattie da “accumulo lisosomiale”, per le quali occorre estendere lo screening, che oggi per queste patologie si effettua solo in due Regioni italiane: Toscana e Veneto. Lo screening neonatale esteso (SNE) può infatti aiutare migliaia di bambini che ogni anno vanno incontro a disabilità gravissime o a morte prematura, a causa del mancato riconoscimento di questa malattia per la quale esiste una terapia. La legge di bilancio 2019 (art.1 C. 544) stabilisce l’aggiunta di 10 patologie metaboliche, oltre alle 50 già comprese, tra cui le malattie da accumulo lisosomiale, nella lista nazionale dello screening neonatale, modificando di conseguenza la Legge precedente (167/2016). Ma finora questo obiettivo non è ancora raggiunto.
Nell’ambito di “Raro chi trova”, l’iniziativa promossa da Takeda con il patrocinio di SIP (Società Italiana di Pediatria), AIAF (Associazione Italiana Anderson-Fabry), AIG (Associazione Italiana Gaucher), AIMPS (Associazione Italiana Mucopolisaccaridosi) e Cometa ASMME (Associazione Studio Malattie Metaboliche Ereditarie), un Report condotto dall’Istituto AstraRicerche ha raccolto dati, esperienze e testimonianze di clinici, società scientifiche e associazioni di pazienti sul valore e l’utilità dello screening neonatale esteso (SNE) per le malattie da accumulo lisosomiale, analizzando i risultati dei progetti pilota portati avanti da due regioni Toscana e Veneto.
I dati parlano chiaro sui motivi per cui è necessario includere nello SNE le malattie da accumulo lisosomiale: la frequenza di casi positivi (più di una cinquantina) riscontrata su oltre 400 mila test effettuati nei progetti pilota in queste regioni è un valido motivo per la sua estensione. Un altro dato significativo è la sostenibilità economica: lo screening neonatale esteso, con l’inserimento delle patologie da accumulo lisosomiale, ha un basso costo, qualche decina di euro a neonato. Emerge dal report l’esigenza di rivedere il modello di screening, nonostante il sistema italiano sia un esempio virtuoso: pochi Centri ma molto selezionati e con personale super specializzato. Ma resta la necessità di inserire questo modello in un percorso che deve servire a migliorare la storia naturale della malattia, con una presa in carico della coppia a partire dalla gravidanza. Una diagnosi precoce può cambiare l’approccio terapeutico e la vita del paziente e questo è vero soprattutto per le malattie da accumulo lisosomiale, che si manifestano nei primissimi anni di vita, causate da un difetto o assenza di uno degli enzimi contenuti nei lisosomi.
«Lo screening neonatale è oggi effettuato solo per le malattie che rispondono a precise caratteristiche: disponibilità di un test per individuarle, applicabilità del test all’intera popolazione di neonati, e che si tratti di malattie con terapie risolutive», dichiara Giancarlo La Marca, Direttore Laboratorio Screening Neonatale Allargato, Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer di Firenze. «Il test va effettuato entro le 72 ore dalla nascita, su una goccia di sangue prelevata dal tallone del neonato; l’analisi viene fatta da personale tecnico con specifica preparazione e il risultato è disponibile dopo 48-72 ore. Non c’è alcun dubbio che lo screening sia utile, anzi, necessario; ma alcune mutazioni hanno manifestazioni molto tardive, e l’interrogativo è se si debba comunicare ai genitori che il loro bambino avrà questa malattia, che potrebbe presentarsi anche dopo 40 o 50 anni di vita. Diverso è il caso delle forme a esordio precoce, delle forme gravi fin dall’infanzia per le quali lo screening neonatale dà notevole vantaggio».
«Nelle malattie da accumulo lisosomiale non parliamo solo di screening, ma di programma di screening, in quanto non si tratta di fare solo un’analisi ma anche prendere in carico il paziente per cambiare il decorso della malattia», puntualizza Alberto Burlina, Direttore UOC di Malattie Metaboliche Ereditarie, Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova. «Non c’è motivo per non inserire le malattie lisosomiali nello screening neonatale esteso: la strumentazione e il personale sono gli stessi, anche se serve l’expertise specifico: nulla cambia per il paziente, nulla cambia per il Centro nascite, né per il trasporto del materiale organico e per il laboratorio. Non sono certo poche malattie a cambiare i costi, visto che attualmente abbiamo uno screening per 50 malattie. Servono Centri selezionati, che abbiano un bacino di nati di almeno 60 mila all’anno. Per le malattie genetiche la parola chiave non è solo “diagnosi”, ma “prevenzione”: si può far regredire quanto prima la malattia. E senza screening neonatale le storie delle famiglie raccontano peregrinazioni in diversi centri, ricoveri senza diagnosi e sofferenza».
La diagnosi precoce è un momento cruciale per la vita di una persona affetta da una malattia da accumulo lisosomiale e in tal senso è fondamentale lo screening neonatale, che deve essere pienamente realizzato. L’impegno delle Istituzioni è fondamentale, così come il contributo dell’informazione e della sensibilizzazione, grazie a iniziative come “Raro chi trova”.
Per approfondimenti: www.rarochitrova.it
di Paola Trombetta