Strane coincidenze. Mentre al Mudec di Milano sta arrivano una grande mostra (resa possibile grazie alla collaborazione con il Museo Rodin di Parigi da cui provengono 53 opere), in programma dal 25 ottobre 2023 fino al 10 marzo 2024 dedicata al celebre scultore Auguste Rodin, il 19 ottobre si celebra l’ottantesimo anniversario della morte di Camille Claudel (1864-1943), una delle scultrici più straordinarie, ma troppo a lungo dimenticata, conosciuta solo come allieva prediletta e amante di Rodin. Tracce solide e possenti del suo talento sono le sculture che ci ha lasciato, visibili in una sala del Musée Rodin in rue de Varenne a Parigi. Eppure la sua straordinaria opera è rimasta a lungo ingiustamente, dolorosamente oscurata (fu rinchiusa come pazza in manicomio), per avere vissuto pienamente e tragicamente il proprio essere una donna libera, fuori dai ranghi e dalle norme prestabilite.
«Ci sono voluti decenni perché Camille Claudel uscisse dallo stereotipo di allieva talentuosa e amante di Auguste Rodin e venisse riconosciuta nella sua originalità e specificità», puntualizza Chiara Pasetti, novarese, scrittrice, drammaturga. Ha pubblicato recentemente Mademoiselle Camille Claudel per le edizioni Aragno che contiene anche il testo dello spettacolo “Moi” (portato in scena nell’estate milanese al Cortile d’onore della Biblioteca Sormani con l’attrice Lisa Galantini, mentre il 19 ottobre a Genova presso i locali della Alliance Française sarà proiettato il lungometraggio per la regia di Mario Molinari). «Mi sono accostata alle sue opere con ammirazione e passione e alla sua vita con un misto di rispetto e di rabbia per ciò che ha subito. Le parole sono l’unico strumento che abbiamo per restituirle quello che, in vita, non ha mai avuto».
Quella di Camille Claudel è una storia veramente terribile e crudele, oggi quasi incredibile.
«La sua vita è ben rappresentata da due fotografie: la prima mostra una giovane bellissima, spesso intenta a scolpire, ironica, a volte irriverente, con la sigaretta in bocca, sguardo fiero di sfida, capelli spettinati e occhi penetranti. La seconda, scattata dall’amica Jessie Litcomb, nel manicomio di Montdevergues, lei è in abito scuro, il cappello a coprire quelli che un tempo erano i capelli lunghi e lucenti. Lo sguardo spento, assente: la fierezza, il coraggio, la superiorità di chi “ha ricevuto molto e lo sa”, in lei si erano dissolti».
Come è nato il suo “incontro” con Camille Claudel?
«La conoscevo solo per essere stata l’allieva, la modella, la “musa” e la grande passione dello scultore Auguste Rodin, e ora di questo me ne vergogno. Quando, nel 2013, ho visto le sue sculture in una mostra in cui erano esposti tredici bronzi di Camille, realizzati nell’ospedale psichiatrico di Montfavet, vicino ad Avignone, dove fu internata per trent’anni con la diagnosi di delirio persecutorio fino alla sua morte nel 1943, ho capito davvero chi è stata Camille Claudel: un’artista di grandissimo talento. Per esprimersi aveva scelto le mani, lo scalpello, e mi sembrava sconvolgente che a un certo punto quella voce fosse stata messa a tacere».
La straordinaria opera di Camille Claudel rimane a lungo oscurata. Forse non avremmo saputo mai nulla se un professore di Storia, facendo ricerche sul più noto fratello, poeta e diplomatico, Paul, non si fosse incaponito sulla vicenda tragica della sorella, occultata dalla famiglia…
«La sua vicenda mi turbò nel profondo, mi indignò, mi sconcertò. Perché non era più uscita da Montdevergues fino alla sua morte? E suo fratello Paul, il cattolicissimo grande poeta e diplomatico, come mai aveva lasciato la sorella in un ospedale psichiatrico per tutto quel tempo? E Rodin sapeva del suo ricovero coatto? Domande che si affollavano nella mia mente… Così decisi che da quel momento mi sarei occupata di lei, per restituirle il posto che si meritava. È seguito un lavoro intenso di ricerche: articoli, libri, lettere, in particolare quelle appassionate di Rodin nei giorni felici della loro relazione, quelle accorate scritte da Camille negli anni dell’internamento che sono giunte a noi, grazie alla madre, che aveva dato ordine di non recapitarle e non consegnarle e dunque furono conservate negli archivi dei manicomi».
Arte e follia: il binomio viene riproposto in continuazione. Camille Claudel era davvero pazza? Quello su cui il suo libro e lo spettacolo che ne è stato tratto invitano a riflettere è proprio la definizione della pazzia.
«Se è vero che l’arte, per essere tale e veramente innovativa, si deve differenziare da una “normalità”, questo scostamento è sempre stato pensato in senso negativo per mettere a tacere le persone scomode, le donne scomode, “diverse”, originali, ribelli. Rispondendo alla sua domanda, il primo pensiero a venirmi in mente è che Camille Claudel appartiene alla schiera di quelle donne “condannate” per quell’anticonformismo pericoloso, fastidioso, da derubricare a disturbo psichico, a disagio comportamentale. In un’epoca in cui alle donne non veniva concesso il “lusso” di scegliere la propria vita».
Banalmente si può affermare che, se fosse nata uomo, tutto sarebbe andato diversamente?
«Camille nasce femmina, da una madre anaffettiva che aveva precedentemente perso il primo figlio, un desiderato maschio. Fu una grande delusione. Camille è una vertigine di libertà, con la sua arte, i suoi amori. Rodin la racchiuse in queste poche parole: “Camille ha una natura profondamente personale, che attira per la grazia, ma respinge per il temperamento selvaggio”. Una Erinni che modellò la sua furia creativa sul marmo, e nell’ultimo disperato gesto di rabbia con la distruzione di quasi tutte le sue opere. La famiglia decide di farla internare, perché questa donna, troppo “moderna” per l’epoca, è l’onta della casa. È stata punita per essere stata libera, per aver vissuto da sola, per essere stata l’amante di un artista. Anche la scultura, allora era per una donna uno scandalo. Folle forse l’hanno fatta diventare internandola, senza consentirle mai di ricevere visite. Anche quando il medico chiama la madre Louise per dire che la paziente sta meglio e potrebbe tornare a casa».
Era decisa a diventare una scultrice…
«“Moi”, il titolo che ho scelto per il mio libro, è un altro rimando alla consapevolezza di sé, del talento che l’artista aveva. Camille rispondendo alla domanda qual è il tuo artista preferito disse semplicemente “Moi”. Inizia da bambina a modellare l’argilla di Villeneuve, quella stessa argilla utilizzata dagli operai del posto per costruire le tegole delle case. Il padre, il solo in famiglia che ne intuisce e sostiene la vocazione, fa trasferire la famiglia a Parigi per consentirle di frequentare i corsi dell’Accademia Colarossi, l’unica aperta alle donne, dove frequenta i corsi dello scultore Alfred Boucher. Al Salon del maggio del 1882 Camille, allora diciassettenne, espone per la prima volta un busto di vecchia in gesso: la modella era l’anziana domestica di casa Claudel. Successivamente va a vivere con due amiche, per lo sdegno e forse anche il sollievo di sua madre. È il primo vero distacco dalla famiglia. Sarà proprio Boucher a presentare Camille ad Auguste Rodin».
Una storia di passione e di arte con Auguste Rodin
«Camille ha vent’anni, Rodin quarantacinque; oltre alle numerose relazioni con le sue modelle, è legato a Rose Beuret, una donna che gli ha dato un figlio. Rodin è già lo scultore famoso dei salotti parigini. Fu un amore appassionato e feroce, fin dal primo incontro. “Ti amo con furore”, le scrive, “non posso passare un giorno senza vederti, diventerei pazzo”. Scolpiscono insieme (è Camille a modellare le mani e i piedi della Porta dell’Inferno di Rodin) e la loro passione emerge prepotentemente dalle sculture, raffiguranti spesso coppie di amanti nudi. Ma l’allieva del grande maestro trova una cifra totalmente indipendente e scolpisce opere di sublime bellezza. Come ammette lo stesso Rodin: “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che ha trovato è tutto suo”».
La relazione avrà un epilogo tragico.
«Rodin non sposerà mai Camille, non lascerà Rose Beuret. Camille no, lei voleva l’amore assoluto, totalizzante. Nel 1893 lascia Rodin. Ma ne uscirà devastata emotivamente. La tragedia incombe. Si trasferisce in un atelier in Boulevard d’Italie. Sola, con i suoi gatti. Camille lavora moltissimo, non ha soldi, non mangia, non si lava, cominciano le sue fughe e sparizioni. Sviluppa un’ossessione per Rodin, considerandolo il responsabile del fallimento della sua arte, oltre che un impostore per aver imitato numerose sue opere».
Le opere che l’emozionano di più?
«Difficile scegliere. Citerei “Il Valzer”: un uomo e una donna, avvinghiati in un vorticoso abbraccio, si abbandonano a un valzer appassionato, come trascinati da un vento impetuoso. Una fusione di anime, prima che di corpi. Il soggetto fu giudicato troppo sensuale e destò scandalo. Anche l’Age Mûr (L’Età Matura) del 1899, una sorta di autobiografia scolpita nel bronzo: nuda e implorante, una giovane si protende in avanti nel tentativo di trattenere l’amato, strappato e trascinato da una vecchia arcigna. Sono facilmente riconoscibili, nella ragazza Camille e nell’uomo Rodin, mentre nell’altra donna Rose, o forse, più simbolicamente, racconta l’inesorabile passaggio del tempo e la Morte. La Vague (L’onda) del 1900: al culmine della sua carriera, Camille esprime ancora la propria originalità con una scultura ispirata all’arte giapponese, Hokusai in particolare, con influenze anche dell’Art Nouveau, e con l’utilizzo di un nuovo materiale prezioso quale l’onice».
Dove possiamo vedere le sculture di Camille Claudel?
«Parte delle sue opere sono oggi conservate al Museo Rodin di Parigi, in rue de Varenne, in una sala a lei dedicata, nonostante Camille Claudel avesse più volte chiesto: “Non mettete le mie opere insieme a quelle di Rodin”. Solo nel 2017 un museo intero le è stato dedicato a Nogent-sur-Seine, luogo felice della sua adolescenza. Uno dei pochissimi della sua tormentata esistenza. Due grandi attrici hanno interpretato Camille Claudel in due film: nel 1988, Isabelle Adjani in “Camille Claudel” (regia di Bruno Nuytten), sul suo rapporto tormentato con Rodin (interpretato da Gérard Depardieu); nel 2015, Juliette Binoche, in “Camille Claudel 1915”, regia di Bruno Dumont, sui suoi anni di internamento».
di Cristina Tirinzoni