Personalizzazione delle cure, riduzione del colesterolo LDL, fattori di rischio, familiarità e test genetici, obesità e rischio cardiovascolare. Sono tanti i temi trattati nel recente congresso “Conoscere e curare il cuore” che si è da poco concluso a Firenze, promosso dal professor Francesco Prati, presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto. «Il tempo è stato definito come fattore fondamentale di prognosi e cura: il tempo è cuore, è muscolo, è vita!», ha affermato il professor Prati, in apertura del congresso. «E la prevenzione, in particolare del colesterolo con farmaci come gli “inibitori PCSK9” che riescono a mantenere l’LDL sotto il valore di 55 mg/dl, fino addirittura a 15 mg/ml nei soggetti che hanno avuto un infarto, stanno entrando sempre più nella pratica clinica, migliorando ulteriormente la prognosi dei soggetti con Sindrome Coronarica Acuta».
Esistono differenze di genere nelle malattie cardiovascolari e nel trattamento delle Sindromi coronariche acute? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Laura Gatto, cardiologa di Terapia Intensiva presso l’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, diretta dal professor Francesco Prati.
Quali sono le patologie cardiache che incontra nella sua pratica clinica con maggior frequenza nelle donne?
«Sono le stesse degli uomini, ma con caratteristiche diverse che sono “genere specifiche”. Le donne hanno un infarto miocardico acuto, come gli uomini. L’età di insorgenza è però più tardiva, di circa dieci anni, in quanto sono protette dagli estrogeni. Finché sono in età fertile generalmente hanno una più bassa incidenza di sindromi coronariche acute (infarti miocardici). Quando inizia la menopausa l’incidenza si equipara a quella degli uomini».
C’è differenza di genere nella sintomatologia dell’infarto miocardico acuto?
«Spesso le donne hanno sintomi diversi dal dolore al petto e al braccio sinistro, tipico degli uomini. Riferiscono a volte senso di vertigine, affanno, mal di stomaco, dolore alla schiena e questo può causare un ritardo della diagnosi, e di conseguenza dell’accesso alle cure determinando, talvolta, una prognosi peggiore. Lo constatiamo ogni giorno in Terapia intensiva dove spesso le donne vengono ricoverate in condizioni più critiche. In questi casi il tempo diventa prezioso per salvare il cuore ed evitare shock cardiogeno, una situazione caratterizzata dall’incapacità di pompare il sangue e conseguente compromissione di altri organi».
Come si interviene in prima battuta durante il ricovero in Terapia intensiva?
«Innanzitutto è fondamentale la tempestività dell’intervento. La donna viene presa in carico a 360° da un team di specialisti. Nei casi più gravi si ricorre alla rivascolarizzazione meccanica, con l’utilizzo di un palloncino o uno stent per riaprire la coronaria chiusa. Nel 40% dei casi individuiamo lesioni multiple che coinvolgono diverse coronarie. In questi casi solitamente si tratta subito la stenosi più grave e poi, dopo un paio di mesi, si completa la rivascolarizzazione delle altre coronarie. Anche se esistono diverse scuole di pensiero orientate alla rivascolarizzazione multipla durante lo stesso intervento».
Quali trattamenti e terapie vengono utilizzate nelle donne? C’è differenza rispetto agli uomini, nella risposta a determinati farmaci?
«Le terapie sono le stesse, ma ci possono essere differenti risposte ai farmaci come ad esempio agli antiaggreganti. Alcune donne molto spesso hanno una tendenza più protrombotica rispetto agli uomini e quindi la risposta ad alcuni farmaci antiaggreganti risulta inferiore».
È vero che la donna è più predisposta ad eventi trombotici?
«Assolutamente sì, perché molto spesso le donne assumono farmaci estro-progestinici, sia in età fertile come i contraccettivi, sia durante la menopausa come la terapia ormonale sostitutiva (TOS) e queste causano un incremento notevole del rischio pro-trombotico. Quando le donne assumono questo tipo di terapie devono essere monitorate e occorre anche fare test per evidenziare eventuali predisposizioni genetiche, come la presenza di trombofilia ereditaria che, unita ai farmaci estro-progestinici, crea una tempesta pericolosa, con aumentato rischio di trombosi a carico degli arti inferiori».
Quali i rischi cardiovascolari per le donne con tumore che devono sottoporsi alla chemioterapia?
«In particolare le donne con tumore al seno, che utilizzano specifiche chemioterapie, possono riscontrare una riduzione della funzionalità cardiaca, con rischio di scompenso. È perciò indispensabile una presa in carico della donna da parte dell’oncologo con la consulenza di un cardiologo per valutare quale sia il male minore».
Parlando di donne obese, è in commercio un farmaco, semaglutide, utilizzato per il diabete tipo 2, che sembra ridurre il peso e persino il rischio cardiovascolare…
«È un farmaco molto promettente, sia per l’obesità, che per la prevenzione cardiovascolare. Sto seguendo alcune pazienti che lo stanno assumendo con continuità e, a parte alcuni effetti collaterali come la nausea, sono molto più motivate degli uomini a continuarne l’assunzione. Anche perché sono donne che magari hanno già sperimentato diete ferree o addirittura interventi di chirurgia bariatrica e sono dunque più propense ad assumere questa terapia quotidianamente. Si rendono conto che non solo riescono a dimagrire, ma riescono anche a ridurre la pressione, a migliorare i parametri del colesterolo e del diabete, e questo le rende più propense a tale trattamento».
Tra le sindromi più frequenti nelle donne è stata citata quella di Takotsubo: quale incidenza? E come viene trattata?
«È il tipico “mal di cuore” da stress, conseguente a un grosso trauma emotivo, come la perdita improvvisa di un familiare, oppure un evento emotivamente sconvolgente, come è accaduto all’ultima donna che ho ricoverato in Terapia intensiva alla quale avevano rubato in casa. Questa sindrome è causata da un’improvvisa attivazione adrenergica, provocata da una scarica di catecolamine, con la comparsa di un’alterazione della contrattilità cardiaca, in genere localizzata in corrispondenza dell’apice del cuore, ma spesso, per fortuna, transitoria. Questa sindrome entra in diagnosi differenziale con l’infarto miocardico; pertanto è indispensabile una coronarografia per confermare che le coronarie siano libere e indenni da trombi. Nella maggior parte dei casi si risolve con le terapie tradizionali, in particolare con l’uso di beta-bloccanti che riducono la tempesta di catecolamine, oltre all’uso di farmaci, come gli Ace-inibitori e i sartani, che aiutano a ridurre la disfunzione; questi trattamenti determinano spesso un recupero totale della funzione ventricolare. Di solito non si utilizzano antiaggreganti, a meno che la coronarografia abbia evidenziato la presenza di coronaropatia».
Nei casi di donne con patologie cardiovascolari gravi, quando è importante mettere in atto uno screening preventivo sui familiari?
«Sicuramente nei casi di alcune patologie genetiche, spesso legate al cromosoma X, ma non si può generalizzare ed è necessario valutare caso per caso. I test genetici sono indicati per alcune cardiopatie ereditarie. Per la cardiopatia ischemica, invece, nei casi in cui si individua una chiara familiarità, si interviene con una prevenzione più attenta dei fattori di rischio e con controlli cardiologici più frequenti. Per quanto riguarda la fibrillazione atriale, che è una patologia più frequente nelle donne in età avanzata, non è richiesto alcuno screening familiare: quando compare, si ricorre a farmaci anticoagulanti per favorire la scoagulazione del sangue e scongiurare il pericolo di ictus».
di Paola Trombetta