Il cancro all’endometrio o corpo dell’utero, è il 4° tumore più frequente nelle donne, dopo quello al seno, colon e polmone. Colpisce circa una donna su 17: in Italia si registrano ogni anno 10 mila nuovi casi, il 90% dei quali riguarda donne con più di 50 anni. È purtroppo in aumento a causa dell’allungamento della vita media, dei cambiamenti degli stili di vita, dell’alimentazione e anche per una produzione eccessiva di ormoni endogeni o l’utilizzo per lungo tempo di terapie a base di estrogeni. Anche l’obesità è un fattore di rischio rilevante, come pure il diabete e l’ipertensione. Incoraggianti notizie su nuove terapie vengono dal recente Meeting annuale della Society of Gynecologic Oncology on Women’s Cancer che si è da poco concluso a San Diego, dove è stato presentato lo studio RUBY 1, con i risultati dell’utilizzo del farmaco dostarlimab, in aggiunta alla chemioterapia tradizionale.
A questo proposito abbiamo intervistato la professoressa Domenica Lorusso, responsabile della Ginecologia Oncologica Medica presso Humanitas San Pio X di Milano.
Come si riconosce il tumore all’endometrio e quali esami si devono fare per diagnosticarlo?
«Per lungo tempo questo tumore è stato riconosciuto come “benigno” e molto facile da curare. Io stessa, parlando con le pazienti, mi sono trovata a dire che, se nella vita si deve proprio avere un tumore, è meglio avere quello dell’endometrio, piuttosto che un altro. Questo perché è un tumore che si riconosce precocemente con perdite ematiche in post-menopausa, un campanello d’allarme che attiva tutto un percorso diagnostico, dall’ecografia all’isteroscopia, alla biopsia. Questo consente di diagnosticarlo al primo stadio e ci siamo sempre illusi che la diagnosi precoce comportasse una facilità di cura. Ma ciò ha creato negli anni un grosso problema perché abbiamo disinvestito nella ricerca e anche nella cura. E questa “trascuratezza” ha provocato un aumento di incidenza e di mortalità. La grande novità culturale di questo tumore negli ultimi anni è stata quella di andare a leggere il DNA, come si fa del resto con molti altri, e scoprire che il tumore all’endometrio non è unico, ma ci sono almeno quattro tipi differenti, con profili molecolari diversi che non solo hanno prognosi diverse, ma sono anche predittivi nel rispondere o meno ad alcuni trattamenti specifici».
Attualmente quali sono le cure per trattare questi tumori e soprattutto quali le novità emerse in occasione del recente congresso della Society of Gynecological Oncology on Women’s Cancer di San Diego?
«Il primo approccio a questo tumore è l’intervento chirurgico che oggi si fa in laparoscopia, con asportazione di utero e ovaie, e rimozione del linfonodo sentinella. Sul tessuto uterino viene fatto l’esame istologico, ma soprattutto il profilo molecolare per valutare il tipo di tumore e poter scegliere così le cure più mirate. Negli ultimi anni si è affiancata, alla tradizionale chemioterapia, l’immunoterapia e al Congresso americano di Oncologia medica, che si è da poco concluso a San Diego, abbiamo visto un’importante novità terapeutica, documentata dallo studio RUBY 1. Abbiamo scoperto che quando combiniamo l’immunoterapia, con il farmaco dostarlimab, alla chemioterapia a base di platino e taxolo, come trattamento della malattia metastatica e avanzata, la sopravvivenza totale passa da 28 mesi a 44 mesi, con una riduzione del 30% del rischio di morte. Ci sono pazienti con una particolare tipologia di tumore (con “instabilità dei microsatelliti”) che traggono maggiori benefici; addirittura la riduzione della mortalità arriva al 70%, mentre altre donne con profili tumorali differenti ne beneficiano un po’ meno. Si tratta comunque di un cambiamento dell’approccio clinico molto importante che lo studio RUBY 1 ha confermato».
Questo nuovo farmaco sembra dunque molto promettente per controllare questo tumore: si potrebbe pensare addirittura a una cronicizzazione della malattia?
«Si è visto che nelle pazienti con instabilità dei microsatelliti, che rispondono meglio al trattamento con dostarlimab, anche in presenza di metastasi, valutando le curve di sopravvivenza, un anno dopo l’inizio della cura, non si sono registrate recidive. Azzarderei persino, in questi casi, la possibilità di usare la parola “guarigione” che mai avremmo pensato di immaginare in una malattia che recidiva, come quella dell’endometrio. E questo vuol dire che le pazienti sopravvivono per anni senza malattia. Si tratta di un sottogruppo di pazienti (circa il 30%) che rispondono così bene al farmaco dostarlimab, che rientra nella classe degli immunoterapici, che hanno cambiato la storia di malattia anche in altre patologie. L’immunoterapia, quando funziona, interagisce con il microambiente tumorale, per cui la paziente che risponde mantiene questa risposta per molto tempo. C’è una regola aurea in oncologia: se un farmaco funziona, lo devi usare prima possibile, quando il sistema immunitario è più attivo ed è in grado di rispondere meglio contro il tumore».
di Paola Trombetta