«Ho scoperto questa malattia delle ossa, denominata ipofosfatasia, per caso in tarda età: fin da piccola però avevo problemi ai denti, alle ossa, neuropatie sensitive alle gambe, fibromialgie, tendinopatie, calcificazioni in diverse parti del corpo. Accompagnando qualche anno fa mia mamma, affetta da osteopenia, presso l’Ospedale di Pisa, il medico le prescrive l’esame della fosfatasi alcalina che risulta al di sotto della norma. Da lì è partita l’anamnesi, con una serie di esami estesi a tutta la famiglia: sia io che i miei figli gemelli siamo risultati affetti da questa patologia delle ossa che finalmente aveva un nome e dipende dalla carenza dell’enzima (fosfatasi alcalina) che provoca indebolimento e fragilità ossea». La testimonianza di Scilla e dei suoi gemelli, oggi più che ventenni, dimostra come le malattie rare da fragilità ossea possono avere, soprattutto negli adulti, un ritardo diagnostico di anche 10 anni e, se non riconosciuti e trattati, rischiano di provocare gravi problemi, a scapito della qualità di vita della persona che ne è affetta. «Anch’io ho ricevuto la diagnosi quando avevo più di 40 anni, in quanto fino ad allora si parlava semplicemente di osteoporosi. A 46 anni la mia malattia ha avuto finalmente un nome: ipofosfatasia, riconosciuta da uno specifico test genetico che ha evidenziato la mancanza dell’enzima che produce la fosfatasi alcalina», puntualizza Luisa Nico, presidente dell’Associazione API (Associazione Pazienti Ipofosfatasia). «Oggi per questa malattia esiste un enzima, simile a quello mancante, che attualmente però è a carico del malato e non rimborsato dal SSN. L’obiettivo della nostra associazione è di sensibilizzare i medici e le istituzioni affinché venga reso disponibile per tutti i pazienti nelle varie Regioni italiane».
«Per i malati di ipofosfatemia, un’altra malattia da fragilità ossea, esiste un trattamento che si rivela molto efficace se preso fin dalla prima infanzia e proseguito per tutto l’arco della vita», puntualizza Nicoletta Schio, Presidente dell’Associazione Italiana Pazienti con Disordini Rari del Metabolismo Fosfato (AIFOSF). «Si tratta di un anticorpo monoclonale (burosumab) che ha dimostrato di migliorare la qualità della vita dei pazienti. Io stessa ne ho beneficiato precocemente, pur avendo ricevuto la diagnosi da bambina e il decorso della mia malattia è stato molto rallentato. Purtroppo l’accesso al farmaco rimane molto complesso e non è garantito per le differenti fasi di vita di un paziente. Auspichiamo che sia reso disponibile quanto prima per tutti i malati del nostro Paese, Come associazione partecipiamo a simposi, congressi medici, per divulgare queste informazioni: siamo in contatto con istituzioni internazionali per garantire percorsi diagnostici e terapeutici adeguati. Collaboriamo in particolare con l’Associazione Mauro Baschirotto che sta dedicando molta attenzione a questa patologia, mettendo a disposizione un test specifico, sovvenzionato dal Sistema Sanitario, che in tre mesi conferma il risultato. Questo test può essere effettuato anche in tenera età, in presenza di problemi di deambulazione del neonato che presenta spesso gambe arquate, deformazioni ossee e anche problemi dentali».
Sui ritardi delle diagnosi di queste malattie rare delle ossa, sulla difficile accessibilità ai test genetici per individuarle e sulla mancata disponibilità dei farmaci per curarle si è discusso in occasione della Giornata Internazionale Malattie Rare delle Ossa (29 ottobre) nell’ambito di un convegno presso la Sala Capitolare del Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma. L’evento è stato organizzato per la prima volta insieme dalla Fondazione FIRMO (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso), con la partecipazione di AIFOSF (Associazione Italiana Pazienti con Disordini Rari del Metabolismo Fosfato) e API (Associazione Pazienti Ipofosfatasia). In particolare l’attenzione è stata rivolta alle due malattie più diffuse, l’ipofosfatasia e l’ipofosfatemia, per le quali possono trascorrere in media fino a 10 anni prima che siano correttamente individuate.
Che cosa sono queste malattie, cosa provocano e come si possono diagnosticare e curare? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Maria Luisa Brandi, presidente di FIRMO e promotrice di questo convegno.
«L’ipofosfatemia è una condizione caratterizzata da bassi livelli di fosforo nel sangue, a causa della perdita di calcio nelle urine, per eccesso di un ormone che agisce sul rene e fa perdere fosfato, in particolare nelle ossa». risponde la professoressa. «Una di queste ipofosfatemie si chiama XLH ed è una forma di rachitismo legata al cromosoma X, perchè il gene mutato si trova su questo cromosoma e causa l’eccesso di ormone. L’altra malattia è l’ipofosfatasia: anche in questo caso manca fosfato a livello osseo, perchè è carente o assente l’enzima (fosfatasi alcalina) presente nel tessuto osseo. Si tratta di malattie diverse, che hanno però il fosfato come comune denominatore. L’espressione clinica è la demineralizzazione ossea. Nell’ipofosfatemia la diagnosi è più facile nel bambino, anche in età neonatale, quando le malattie si manifestano con segnali più evidenti. Si registrano casi di fratture ossee già nell’utero materno durante la gestazione. Il problema emerge quando finisce l’età pediatrica e la malattia non è ancora stata scoperta. Ciò avviene soprattutto nel caso in cui le mutazioni genetiche sono meno rilevanti e di conseguenza vi sono minori manifestazioni della patologia. Fortunatamente, per entrambe le malattie, sono state messe a punto nel corso degli anni delle terapie molto efficaci. Per l’ipofosfatemia esiste un anticorpo monoclonale specifico che blocca questo ormone. Per l’ipofosfatasia si deve ricorrere alla sostituzione dell’enzima mancante, appositamente creato per concentrarsi nell’osso e rispondere all’esigenza di aumentare la mineralizzazione e ridurre le fratture. Entrambe le terapie sono in uso, ma mentre l’enzima è in fascia C, l’anticorpo monoclonale può essere rimborsato dal SSN nel caso di persone che si fratturano». Esistono dei test per individuare precocemente queste malattie? «Ci sono test biochimici per quantificare la fosfatasi alcalina e altri enzimi mancanti, ma non vengono effettuati di routine. Noi abbiamo programmato a Firenze, all’interno dei laboratori di FIRMO, la possibilità di effettuare questi test diagnostici che forniamo liberamente a tutti i medici che inviano i campioni di sangue da analizzare».
«Purtroppo sono pochi i centri che garantiscono un accesso a questi esami diagnostici specifici, e quasi sempre si tratta di laboratori altamente specializzati a cui non tutti i pazienti possono accedere, essendo più di 500 le patologie che interessano lo scheletro su un totale di 7000 malattie rare e rendono davvero difficile la vita quotidiana di uomini e donne, spesso giovanissimi», fa notare Annalisa Scopinaro, Presidente UNIAMO-Federazione Italiana Malattie Rare. «E non tutti i medici sono in grado di riconoscerle. Anche per le terapie siamo convinti che debbano essere disponibili a tutti e la ricerca medico-scientifica incentivata il più possibile. Esiste anche un problema di formazione del personale medico-sanitario e una maggiore preparazione può solo migliorare i livelli d’assistenza. In questo senso un ruolo importante può essere svolto anche dagli infermieri, che devono avere maggiori competenze cliniche sulle patologie dell’osso».
«Accogliamo i solleciti che sono arrivati dai rappresentati di medici e pazienti», conclude l’Onorevole Ylenia Zambito, dell’Intergruppo Parlamentare per le Fratture da Fragilità. «Il nostro Intergruppo nasce proprio con l’obiettivo di rafforzare l’impegno da parte delle Istituzioni verso patologie importanti come le fratture da fragilità. Nel caso specifico delle malattie rare dell’osso le difficoltà sono ancora maggiori per pazienti, caregiver e anche per gli specialisti. Ben vengano quindi iniziative, come la Giornata Internazionale, che hanno il merito di accendere i riflettori su problemi sociosanitari che richiedono maggiore attenzione».
di Paola Trombetta