“Una festa bellissima tra amici, per scambiarsi gli Auguri di Natale. Giorgia si trucca e si veste con cura, mette le scarpe col tacco e quando arriva nella stanza, piena di brindisi e di risate, tutti la guardano. Improvvisamente però si fa pallida: si accascia e cade a terra. C’è chi grida, chi si china su di lei e chiama un’ambulanza. A questo punto, classico colpo di scena: sulla porta si affaccia il vicino di casa che è un paramedico, appena rientrato dal turno in ambulanza, e in mano ha una valigetta con il defibrillatore che le fa ripartire il cuore. Nel frattempo Giorgia viene portata via dall’ambulanza ed è salva, tra gli applausi dei presenti”. Dalla voce di Pamela Villoresi, un racconto che tocca il cuore. Ma non è la scena di un film, bensì una storia vera vissuta da una ragazza, Giorgia, che però di quell’evento non ricorda nulla, come se avesse avuto un black-out.
«Ho 19 anni e sono viva grazie all’impianto di un defibrillatore, avvenuto dopo ben tre arresti cardiaci. Mi sento un po’ una donna bionica, come se fossi radioattiva. E questo mi crea dei problemi: cominci a pensare che la malattia cardiaca ti possa penalizzare, ti impedisca di avere una vita normale, hai il timore che il fidanzato ti lasci e le amiche non ti invitino più ad uscire. Poi ho cominciato a prendere la vita con più leggerezza, ad accettare quanto mi era capitato, senza considerarlo un limite».
L’esperienza di Giorgia fa parte di un docufilm, scritto da Donatella Romani, per la regia di Roberto Amato e prodotto da Telomero Produzioni, in cui si raccontano le storie di altri cardiopatici che hanno affrontato la loro malattia.
«Per capire le cardiomiopatie, dobbiamo affrontare in un certo senso un paradosso: il cardiologo, fin dagli albori, si è occupato delle arterie coronarie, delle valvole, del colesterolo, della pressione alta, ma non del muscolo cardiaco», fa notare il dottor Iacopo Olivotto, direttore Cardiologia Pediatrica dell’Ospedale Meyer di Firenze. «E quindi, poiché il muscolo cardiaco è stato programmato in maniera meravigliosa da chi ci ha creato, raramente si pensa possa andare incontro a una malattia. In realtà il muscolo cardiaco può ammalarsi, nel senso che può generarsi un danno primitivo alla pompa cardiaca».
Anche Cristina ricorda che a 12 anni, per iscriversi ai corsi di nuoto, ha ricevuto una diagnosi di cardiomiopatia, ma è sempre stata asintomatica, anche se ha dovuto interrompere i corsi di nuoto. Nonostante ciò ha sempre condotto una vita normale, persino “spericolata” come pilota di rally. Fino al giorno in cui la sua malattia si è manifestata con sintomi severi e ha avuto un nome: cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva. Adesso Cristina è in attesa di un trapianto.
«La comunicazione della diagnosi è un momento fondamentale: occorre spiegare cos’è la malattia, cosa comporterà e come curarla», puntualizza la dottoressa Samuela Carigi, cardiologa all’Ospedale Infermi di Rimini. «E soprattutto è indispensabile supportare il paziente a convivere e non a sentirsi limitato o menomato, nonostante le difficoltà di una sintomatologia che spesso è destinata ad aggravarsi».
Un’altra storia, riportata nel docufilm è quella di Benedetta, convinta di voler fare il medico, e non cambia idea neanche quando il cuore di papà Enrico comincia ad avere problemi e lo costringe a stare sul divano anziché andare al lavoro. Ma Benedetta, così piccola, non sa che forse non potrà curare il suo papà. E la morte del padre ha fatto perdere a Benedetta la fiducia nella Medicina. Ma poi è ritornata sui suoi passi e si è laureata, nella speranza di poter salvare altre persone malate come lui.
Anche Antonio rivive gli ultimi sette anni in cui i medici ripetevano che non aveva nulla, e davano la colpa allo stress. Ma il suo cuore continuava a perdere il ritmo, e a sentire affanno ogni volta che faceva le scale. E alla fine dopo tante visite, si rivolge a un ennesimo medico, che lo ascolta e finalmente ottiene la diagnosi: cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva. Per fortuna ha sempre avuto un atteggiamento reattivo e positivo. «Quando si comunica la diagnosi, spesso è un sollievo per il paziente che finalmente conosce il nome della malattia», conferma il dottor Olivotto. «Mi torna in mente il libro della Genesi, quando Dio dice ad Abramo: “Adesso puoi dare il nome a tutti gli animali, a tutte le cose. Nella Bibbia dare il nome significava avere il possesso delle cose”. Per questo conoscere il nome della propria malattia significa poterla gestire meglio. In più abbiamo scoperto negli anni che questa malattia può essere legata a un’alterazione genica: averlo saputo per molti ha creato un profondo sconforto e senso di colpa, per altri un modo di proteggere la famiglia: riconoscere questa mutazione genica può consentire di prevenirne la progressione con alcuni farmaci efficaci che oggi si stanno utilizzando».
Le testimonianze di questo docufilm sono state riportate in un libro “Un cuore grande”, curato da AICARM APS (Associazione Italiana Cardiomiopatie- www.aicarm.it). «Ci proponiamo di organizzare corsi per educare i pazienti a convivere con queste patologie. Abbiamo promosso anche incontri nelle scuole con i ragazzi che erano entusiasti di imparare qualcosa di pratico», ha affermato il professor Franco Cecchi, presidente di AICARM. «Hanno letto magari sul giornale che uno studente del liceo ha salvato una persona sul treno o in spiaggia. E anche loro erano motivati a farlo. Dalle storie personali, raccolte nel libro e testimoniate nel docufilm, oltre alla malattia, emergono soprattutto le emozioni provate da questi pazienti per affrontarla».
Il docufilm, che è andato in onda di recente su LA7, è visibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=SY8e44XfZ5E
di Paola Trombetta