Una cura innovativa per la mielofibrosi, un tumore raro del sangue

Stanchezza, inappetenza, anemia, dolori muscolari e articolari, qualche linea di febbre e un forte dimagrimento. Nei casi più gravi può comparire splenomegalia (ingrossamento della milza) e la malattia può anche impedire di compiere attività normali, quali salire le scale, rifare il letto, cucinare.

Questi sintomi potrebbero essere il campanello d’allarme di un raro tumore, che colpisce il midollo osseo, impedendo di formare correttamente le cellule del sangue. Si chiama mielofibrosi e in Italia colpisce 350 persone all’anno con un’incidenza maggiore tra i 60 e i 70 anni: solo il 15% ha meno di 55 anni. Oggi è disponibile una nuova terapia, momelotinib, un inibitore orale dei geni JAK1/JAK2, che sono mutati in questa malattia e del recettore dell’activina A di tipo 1, il primo medicinale autorizzato “per il trattamento dell’ingrossamento della milza o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con anemia da moderata a severa, affetti da mielofibrosi primaria, post policitemia o post trombocitemia, che sono naïve agli inibitori della chinasi Janus (JAK) o già trattati con il farmaco ruxolitinib”, come citano gli specialisti.

Di questa malattia e delle sue conseguenze, abbiamo parlato con Antonella Barone, presidente dell’Associazione Italiana Pazienti con Malattie Mieloproliferative (AIPAMM-www.aipamm.it), lei stessa affetta da policitemia, una patologia che potrebbe essere destinata, pur lentamente, a trasformarsi in mielofibrosi.

Come ha scoperto la sua malattia? Quali i sintomi? Che impatto ha avuto sulla quotidianità?
«Nel 2008 ho avvertito un prurito strano alle gambe, mai provato prima. Ricordai il film di Nanni Moretti e la sua difficoltà ad avere una diagnosi (nel suo caso si trattava di un linfoma): associai immediatamente il sintomo a una malattia ematologica. Questa “suggestione cinematografica” alla fine mi aveva dato ragione. Il medico curante mi prescrisse un emocromo da cui risultarono piastrine alte e mi inviò al centro ematologico. Il mio medico aveva già pazienti con questa patologia. In un primo momento ipotizzò si trattasse di una trombocitemia essenziale, la più benigna delle tre (le altre sono policitemia e mielofibrosi) e mi rassicurò un po’. Poi sono iniziati gli esami specialistici per avere la diagnosi corretta che si trattava di policitemia. L’impatto con la quotidianità è stato l’ingresso nel mondo dellincertezza, perché la policitemia potrebbe degenerare in mielofibrosi, una malattia più grave con la comparsa di tessuto fibroso nel midollo osseo che non è più in grado di produrre le cellule del sangue (globuli rossi, bianchi e piastrine)».

A chi si è rivolta e dopo quanto tempo ha avuto la diagnosi?

«Ho impiegato un anno, durante il quale ci sono stati dei passaggi traumatici. Il primo indubbiamente la biopsia osteomidollare che ancora oggi si fa senza sedazione, ma solo con anestesia locale. L’ho vissuta come un’iniziazione al dolore fisico e psichico, un passaggio di stato, una metamorfosi da donna sana a paziente. Una pratica patriarcale, stavolta ci sta questa definizione, in cui un medico ti dice quanto devi soffrire. Il secondo trauma alla diagnosi, è stato il fatto che non avevo la trombocitemia, ma la policitiemia e secondo un altro ematologo addirittura la mielofibrosi. Il terzo “trauma” è che non c’era un farmaco per curarla ma si doveva solo aspettare e sperare che non evolvesse… troppo in fretta!».

Quali cure ha seguito, dagli esordi della malattia ad oggi? Quali i disturbi più fastidiosi?
«Per 9 anni mi sono sottoposta solo a salassi e cardioaspirina. Poi sono entrata in un trial con l’interferone e dopo diversi anni devo dire che mi sento ancora bene. Ma in questo periodo ho visto tanta gente, anche più giovane di me peggiorare all’improvviso, affrontare un trapianto di midollo osseo e non sempre superarlo, oppure cedere alla depressione grave. Sì perché l’uso continuo di interferone, provoca, come effetto collaterale, la depressione anche in forme gravi. Per fortuna ho ancora sintomi lievi, anche se a volte possono rivelarsi fastidiosi, come sensazioni simili a punture di spilli agli arti inferiori, sfregamenti ad indossare certi tipi di tessuti di abbigliamento, difficoltà di passare dal caldo al freddo. Per fortuna non soffro ancora di sudorazioni notturne, che sono sintomi tipici della mielofibrosi, la malattia che riscontriamo più di frequenti nei pazienti che seguiamo come associazione».

Quali conseguenze ha avuto questa malattia sulla sua vita?
«La prima conseguenza è stata la solitudine. Non riuscivo a comunicare ai miei cari i miei sentimenti e le mie preoccupazioni. Mio marito ha reagito in maniera molto diversa a un suo tumore, ma io non sono così. L’aiuto principale è venuto da altri pazienti, persone disposte ad ascoltarti sempre, a confidarsi, a non voler sembrare per forza degli eroi o dei combattenti. Ho creato un blog che ora non ho più, ma è stata la base della mia comunità che poi mi ha condotto ad occuparmi dell’Associazione».

Da quanto tempo è presidente dell’Associazione Pazienti con Malattie Mieloproliferative e quali iniziative promuovete?
«Sono presidente dal 2020 quando ha lasciato il fondatore Giovanni Barosi, al tempo anche mio ematologo. Barosi ha fondato AIPAMM ma ha sempre desiderato che a presiederla fosse un paziente e che fosse un’Associazione di pazienti. Siamo una comunità, creiamo molte occasioni d’incontro in presenza per conoscerci meglio e c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltare. Abbiamo una rete di medici per informazioni e consulenze in emergenza, perché oggi molti referti possono gettare nel panico un paziente che li riceve all’improvviso (magari tramite i fascicoli elettronici regionali). Cerchiamo in primo luogo di insegnare ai pazienti ad avere un accesso consapevole all’informazione anche sui social, di avere fiducia nella medicina, pur nella certezza che per queste malattie non esiste un trattamento risolutivo anche se possiamo vivere meglio. Abbiamo poi come AIPAMM una vocazione che definirei cautamente attivistica: ci battiamo per contrastare la disomogeneità regionale per l’accesso alle cure, per promuovere trattamenti domiciliari di qualità, contro il dolore. Collaboriamo inoltre con ADMO per la sensibilizzazione alla donazione di cellule staminali emopoietiche».

«Il trapianto di cellule staminali emopoietiche rimane ancora la cura più efficace per una malattia come la mielofibrosi», conferma il professor Francesco Passamonti, direttore della struttura complessa, Dipartimento di oncologia e Onco-Ematologia, ordinario di Ematologia all’Università degli Studi di Milano. «Questa malattia è causata dalla mutazione di alcuni geni che si esprime in tre forme. La principale, che accomuna oltre la metà dei pazienti, è la mutazione V617F di JAK2, un gene importante per il controllo della produzione delle cellule del sangue che, se mutato, risulta associato a una loro proliferazione incontrollata. La seconda per frequenza è quella del gene CALR, presente nel 25-35% dei casi e alla base della produzione di una proteina, la calreticulina, coinvolta nella regolazione di processi come la proliferazione, la crescita, la migrazione e la morte cellulare. L’ultima mutazione del gene MPL, coinvolto invece nella produzione di piastrine, si riscontra nel 3-5% dei pazienti. In buona sostanza, la mielofibrosi determina la graduale comparsa nel midollo osseo di un tessuto fibroso che ne sovverte la struttura. In questo modo ne viene modificata la funzionalità, con la conseguente alterazione della produzione delle cellule del sangue. Quando la malattia si manifesta in maniera isolata si parla di mielofibrosi primaria (idiopatica); quando rappresenta la conseguenza di altre neoplasie mieloproliferative, come policitemia e trombocitemia, si parla di mielofibrosi secondaria. La mielofibrosi può peggiorare più o meno lentamente nell’arco di diversi anni, con modalità variabili a seconda del paziente. In genere la fase iniziale consiste in un danno alla struttura del midollo osseo. È la fase precoce, o pre-fibrotica, perché non è presente ancora la fibrosi del midollo osseo. Nella fase avanzata compare la fibrosi midollare e si evidenzia una fuoriuscita di cellule staminali immature dal midollo osseo. Queste, attraverso il sangue, raggiungono la milza e il fegato, dove si accumulano. Solitamente, quando la malattia si manifesta, sono già presenti le alterazioni tipiche: oltre alla fibrosi, l’anemia e l’ingrossamento della milza. In alcuni casi (10-15 su 100) la mielofibrosi evolve in una patologia più severa: la leucemia mieloide acuta».

La quotidianità del paziente non è delle più semplici: negli stadi più avanzati, la mielofibrosi ha un forte impatto sulla qualità di vita. La situazione complessiva può essere aggravata dal fatto che colpisce per lo più gli anziani, persone fragili, che assumono farmaci per altri disturbi cronici e che, rispetto alla popolazione generale, hanno un rischio maggiore di malattie a carico del cuore e dei vasi sanguigni. Circa il 40% dei pazienti presenta un’anemia da moderata a grave già al momento della diagnosi, ma si stima che quasi tutti vi andranno incontro nel corso del tempo. Questa condizione richiede cure di supporto aggiuntive, in primis trasfusioni. E, purtroppo, i pazienti che dipendono dalle trasfusioni hanno una prognosi sfavorevole e una sopravvivenza ridotta. Nei casi in cui si riscontri una profonda astenia e o una splenomegalia massiva, la mielofibrosi può impedire di compiere una serie di attività “normali”: camminare, salire le scale, rifare il letto, fare la doccia, cucinare.

Le terapie più innovative. «L’unica ad oggi potenzialmente in grado di guarire è il trapianto di midollo, ma è riservato a una piccola percentuale di pazienti, in genere sotto i 70 anni, per via della complessità e dei rischi ad esso associati», ribadisce il professor Alessandro Vannucchi, Direttore di Ematologia, Azienda Ospedaliera Careggi, e ordinario di Ematologia all’Università di Firenze. «All’orizzonte si prospetta ora l’utilizzo di un nuovo farmaco, momelotinib, che rientra nella famiglia dei JAK inibitori: è infatti un inibitore orale di JAK1/JAK2 e del recettore dell’activina A di tipo 1: è il primo medicinale autorizzato per il trattamento della splenomegalia e dei sintomi correlati in pazienti adulti con anemia moderata/severa affetti da mielofibrosi primaria, mielofibrosi post policitemia e melofibrosi post trombocitemia essenziale, che non sono mai stati trattati con inibitori delle Janus (JAK) chinasi e già trattati con ruxolitinib. Lo studio di fase III che ha portato all’approvazione del farmaco è denominato MOMENTUM su pazienti con anemia da moderata a grave. Ha dimostrato, rispetto agli altri farmaci già utilizzati, di ridurre i sintomi, soprattutto la splenomegalia (ingrossamento della milza, lo ricordiamo) e di avere un impatto favorevole sull’anemia, riducendo il ricorso frequente alle trasfusioni e rimandando persino il trapianto di midollo. Certo la strada è ancora lunga, ma la medicina procede a tappe. L’importante è tenere aperta la partita contro il cancro: un passo alla volta per una ripresa alla volta».

di Paola Trombetta

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