Vedere è… poter curare: esami e imaging per diagnosticare le malattie cardiache

Prevenzione con stili di vita sani ed esami mirati che comprendono anche i test genetici. Progressi nelle tecniche di imaging per individuare quei fattori di rischio, come l’infiammazione, che possono interessare le arterie e le coronarie in particolare e causare cardiopatie anche gravi. Comparsa di “ictus criptogenico”, senza una precisa causa, che colpisce sempre più i giovani. Malattie genetiche, come l’amiloidosi cardiaca, che oggi si possono curare con nuovi farmaci. Sono alcuni dei tanti argomenti trattati in occasione della 42a edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, che si è tenuto come ogni anno a Firenze dal 20 al 23 marzo a Fortezza da Basso, promosso dal professor Francesco Prati, presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto e Direttore del Dipartimento Cardio-toraco-vascolare dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma. «Con questo congresso ci impegnamo ogni anno a mettere a disposizione dei cardiologi italiani una “piattaforma di approfondimento e dibattito” sui temi più innovativi, con l’obiettivo di consolidare gli approcci terapeutici maggiormente efficaci per la salute dei pazienti», ha precisato il professor Prati in occasione della conferenza stampa che ha preceduto il convegno. «Anche quest’anno, c’è un filo rosso che lega in modo coerente parole chiave significative ad alcuni tra gli interventi più stimolanti: vedere è poter curare, soprattutto i giovani, sotto i 45 anni, più soggetti a certe cardiopatie ed episodi di stroke, di origine non precisata (ictus criptogenici). Ma anche le donne, i cui sintomi sono spesso ancora sottovalutati. E gli anziani, per i quali si possono oggi praticare processi di rivascolarizzazione anche nella coronaropatia più gravi. Fondamentale è il contributo delle tecniche di imaging, mediante ecocardiografia, tomografia computerizzata (CT) e risonanza magnetica per immagini (RMN). In particolare, la TC-PET con 68Ga-DOTATATE, che sembrerebbe in grado di identificare lesioni coronariche ad alto rischio e rappresenta un nuovo marcatore dell’infiammazione aterosclerotica. Da non sottovalutare inoltre le discussioni sulle Linee Guida 2024, per trattare molte patologie cardiache, in particolare la fibrillazione atriale, per la quale l’ablazione viene identificata come un intervento importante che deve essere integrato a una strategia terapeutica sempre più mirata e multifattoriale. A ciò si aggiunge una nuova raccomandazione per le procedure di angioplastica nei pazienti che hanno subito un’ablazione».

Per approfondire alcuni di questi argomenti, in una chiave più “di genere”, abbiamo intervistato la professoressa Eloisa Arbustini, Responsabile del Centro per le Malattie Genetiche Cardiovascolari del Policlinico San Matteo, Fondazione IRCCS di Pavia e presidente del Comitato scientifico del Congresso di Firenze.

 Quali sono i principali fattori di rischio cardiovascolari nelle donne?
«Innanzitutto, al di là dei fattori di rischio classici associati ad aterosclerosi come l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, il diabete, il fumo di sigaretta, è da sottolineare la perdita dell’ombrello protettivo ormonale dopo la menopausa. Si tratta in questo periodo di personalizzare il monitoraggio dei fattori di rischio, gli eventuali trattamenti che si possono rendere necessari ed il controllo della loro efficacia, in ambito specialistico, con il cardiologo e il ginecologo per l’indicazione di un’eventuale terapia ormonale sostitutiva e conoscerne rischi e benefici. E’ un percorso comunque fattibile, su precisa indicazione ed inquadramento opportuno».

Durante il congresso si è parlato, come fattore di rischio anche dell’obesità e di un farmaco, semaglutide, che potrebbe ridurla e abbassare anche il rischio cardiovascolare… Di cosa si tratta?
«È un farmaco che abitualmente viene usato nelle persone con diabete per il controllo della glicemia. I dati ricavati da studi recenti dimostrano che riduce anche il “grasso addominale” (nelle donne la circonferenza addominale non dovrebbe superare i 92 cm e negli uomini 103 cm) e che potrebbe anche ridurre del 20% il rischio coronarico. E’ comunque una terapia che deve essere prescritta da un cardiologo, in base al rischio cardiovascolare della persona e/o da un diabetologo se c’è una motivazione legata al metabolismo glucidico che porti come indicazione a questo farmaco. Ma occorre ancora tempo per valutarne gli effetti a lungo termine».

È stata anche affrontata la tematica dell’infiammazione correlata al rischio cardiovascolare. Quali conseguenze potrebbe avere sul cuore?
«L’infiammazione va intesa come una condizione che può esporre al rischio di eventi coronarici, perché sul piano strutturale può accentuare le complicanze delle placche aterosclerotiche coronariche e rischio di trombosi e di possibili infarti. In generale comunque l’infiammazione attiva processi biologici che possono essere correlati alla progressione della malattia coronarica».

Questa infiammazione si può prevenire? Esistono parametri per poterla riconoscere e misurare?
«Innanzitutto bisogna diagnosticarla. Si è parlato di proteina C reattiva e di altri parametri come l’interleuchina 6 e hsCRP, ma di per sé non possono essere ritenuti esami sufficienti per definire uno stato infiammatorio tale da costituire di per sé un fattore di rischio sufficiente e deterministico per la comparsa di eventi cardiovascolari. Qualche accenno anche all’utilizzo di esami di imaging cardiaca, come la Tomografia Computerizzata (CT) e la Risonanza Magnetica (RMN)».

Quali esami consiglia di fare a una donna per la prevenzione del rischio cardiovascolare e a quale età?
«In generale come prevenzione non farei grosse differenze tra uomo e donna in termini di esami per valutare i fattori di rischio come le dislipidemie, il diabete o la sua predisposizione. Per la donna penso sia particolarmente importante valutare l’ipertensione che solitamente compare in coincidenza o subito dopo la menopausa. Oggi si tende ad abbassare i valori pressori di riferimento: la pressione bassa è un’alleata delle nostre arterie. Più le nostre arterie vivono senza questo stimolo ipertensivo, più a lungo conservano elasticità, che è fondamentale per la loro funzione. Certamente è indispensabile tenere conto della familiarità per queste patologie. Si sta assistendo a una diminuzione dell’età di comparsa dell’ictus sotto i 45 anni, non solo legato a familiarità, ma anche a cause ancora ignote (“ictus criptogenico”). Anche le gravidanze e le loro eventuali complicanze vengono oggi maggiormente monitorate (per es. diabete gravidico, pre-eclampsia). Per questo si parla sempre di personalizzazione del rischio: ognuno dovrebbe avere una stima personalizzata del suo rischio cardiovascolare».

Cosa pensa dell’esecuzione dei test genetici per individuare precocemente particolari patologie cardiovascolari?
«Innanzitutto bisogna stabilire quali test genetici. Vi sono esami particolarmente importanti, quelli che riguardano i fattori di rischio cardiovascolare ereditario, ovvero la presenza di alterazioni genetiche che possono causare, ad esempio, l’ipercolesterolemia familiare. Ci sono invece test più generici che calcolano il cosidetto “polygenic risk score” in cui si integra il rischio associato a  più varianti genetiche che insieme, variamente combinate nei diversi individui, possono aumentare il rischio globale. In generale tuttavia, nessuna variante genica inclusa nei pannelli che testano il polygenic risk score è di per sé sufficiente e deterministica per causare malattia. E’ molto importante la storia familiare, ancora prima dei test di laboratori. Se sono una donna di 50 anni e ho perso mia madre per infarto del miocardio in giovane età, questo è un elemento importante di rischio familiare elevato. In questi casi si può intervenire con i farmaci, se ci sono valori alterati di colesterolo, trigliceridi, lipoproteine che meritano di essere corretti con i farmaci e con una dieta appropriata, povera di sale e un’adeguata attività fisica. Anche l’ipertensione deve essere controllata, non solo per la prevenzione dell’infarto, ma anche dell’ictus (stroke)».

Tra le malattie genetiche, vorrei ricordare l’amiloidosi cardiaca, per la quale è stata di recente riconosciuta la rimborsabilità di un farmaco? Di cosa si tratta?
«Può essere una malattia genetica, ma è anche associata all’invecchiamento, senza necessariamente avere delle basi genetiche. Da un lato abbiamo i casi “familiari”, genetici ed ereditari, in cui i genitori trasmettono ai figli la predisposizione che, col tempo, può provocare la malattia. Dall’altro abbiamo forme più propriamente “senili” che si verificano a prescindere da difetti genetici; le cause non sono note e sono oggetto di ricerca. L’amiloidosi comporta l’infiltrazione di materiale fibrillare tra le cellule dei tessuti, in particolare quelle del cuore quando si parla di amiloidosi cardiaca, nelle pareti vascolari e nelle valvole del cuore. Questa infiltrazione limita la capacità del cuore di rilassarsi e con il tempo, può ridurre anche quella contrarsi regolarmente. Emerge quindi il rischio di scompenso che, nell’amiloidosi cardiaca, è caratterizzato dal fatto che il cuore meccanicamente fa il suo lavoro (si contrae efficacemente), ma quando deve rilassarsi non riesce. E’ come avere del cemento che impedisce la regolare escursione sistolica e diastolica delle pareti del cuore. E’ una malattia che si sta diagnosticando sempre più frequentemente, sia perché sono oggi disponibili nuovi strumenti diagnostici non invasivi che per la disponibilità di nuove terapie mirate alle diverse forme di amiloidosi. Ci sono infatti diversi tipi di amiloidosi, circa 42, di cui 19 sono quelle sistemiche, che riguardano più organi e tessuti. Tra queste almeno 9 interessano il cuore».

Potrebbe citare qualche malattia cardiaca più frequente tra le donne?
«Sicuramente la dissecazione coronarica a coronarie sane (SCAD = spontaneous coronary artery dissection) che si verifica in almeno 90% dei casi nella donna. Solo in un quinto dei casi è identificabile una causa genetica. Non essendo affette da aterosclerosi, le coronarie sviluppano uno “slaminamento” o separazione degli strati della parete principale e possono generare sindromi coronariche acute, quindi infarti con alterazioni del tracciato elettrocardiografico, rialzo di troponine e degli enzimi cardiaci. Non sappiamo di preciso le cause delle SCAD; si sta valutando un ipotetico rischio genetico, avendo osservato, in particolare nella dissecazione coronarica, anche la possibilità di eventi simili in sorelle, o cugine, appartenenti a una stessa famiglia. Spesso però queste patologie insorgono all’improvviso, a volte in concomitanza con accessi ipertensivi, stress e stimoli che possono anche scatenare un rilascio abnorme di catecolamine (questo più tipicamente avviene nella sindrome di Takotsubo che può presentare le stesse caratteristiche di un infarto, con dolore acuto, ma coronarie angiograficamente sane). A differenza di quest’ultima sindrome che non causa necrosi del tessuto miocardico, la dissecazione coronarica provoca necrosi della parete cardiaca, e viene riconosciuta dalla coronarografia. Purtroppo accade a volte che la paziente arrivi alla diagnosi troppo tardi. Questa patologia può verificarsi in donne gravide, correlata a un’ipertensione magari latente. Un motivo in più per monitorare il quadro cardiaco delle donne in gravidanza».

di Paola Trombetta

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