Ipoparatiroidismo: in arrivo una rivoluzionaria “terapia sostitutiva”

«Nel 2013 all’Ospedale di Udine ho dovuto farmi asportare la tiroide a causa del Morbo di Basedow. Dopo poco tempo ho cominciato ad avvertire formicolii e irrigidimenti muscolari agli arti e anche alla bocca, fino a una crisi tetanica vera e propria che mi ha bloccato completamente e ha richiesto il trasporto al Pronto Soccorso. Qui mi hanno diagnosticato una totale interruzione della funzionalità delle ghiandole paratiroidi con mancata produzione di calcio e magnesio che mi provocava questi spasmi. Mi hanno somministrato dei farmaci, dapprima per l’osteoporosi, poi più specifici per sopperire la carenza di produzione di ormoni da parte delle ghiandole paratiroidi ormai compromesse. Mi avevano sconsigliato di programmare una gravidanza. Invece sono riuscita ad avere un bambino. E durante i nove mesi di gestazione sono stata benissimo, perché il paratormone mancante veniva prodotto dalla placenta e dalle ghiandole mammarie. E ancora adesso risento di questi benefici con l’allattamento. E spero vivamente che si mantengano anche in futuro».

L’esperienza di Marta è un segnale di speranza per tutte quelle donne che come lei hanno problemi di ipoparatiroidismo. Con l’aiuto di due esperte, la professoressa Maria Luisa Brandi, Medico Chirurgo Specialista in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, Direttore della Donatello Bone Clinic, Presidente della Fondazione FIRMO e della dottoressa Valentina Camozzi, M.D, Ph.D. Specialista in Endocrinologia, Dirigente Medico, Professore a Contratto UOC Endocrinologia, Dipartimento di Medicina, Azienda Ospedaliera Università di Padova, cerchiamo di capire di che malattia si tratta, quali sono i sintomi e i rimedi.

«L’ipoparatiroidismo è una patologia endocrina caratterizzata da deficit totale o parziale di secrezione di paratormone (PTH) da parte delle ghiandole paratiroidi, che determina una riduzione dei livelli di calcio e un aumento dei livelli di fosfato nel sangue», conferma la professoressa Maria Luisa Brandi che ha studiato il paratormone ai National Institutes of Health, nientemeno che con il professor Gerald Aurbach che lo aveva isolato e aveva condotto i successivi approfondimenti. «La maggior parte dei pazienti sviluppa ipoparatiroidismo in seguito a danni o alla rimozione accidentale delle ghiandole paratiroidi durante un intervento chirurgico alla tiroide (circa il 75% dei casi). Anche l’asportazione del gozzo potrebbe compromettere l’attività di queste ghiandole. Altre cause non chirurgiche includono disordini autoimmuni, disturbi genetici e forme idiopatiche. Ci sono poi i danni provocati dalla chemioterapia e radioterapia, che danneggiano queste ghiandole e riducono la produzione di calcio».

Qual è l’incidenza di questa malattia e con quali sintomi si manifesta?
«L’ipoparatiroidismo è una malattia rara, con una prevalenza stimata tra 6,4-37 casi ogni 100 mila persone e un’incidenza compresa tra 0,8-2,3 nuovi casi ogni 100 mila persone all’anno. In Italia, ne sono coinvolti circa 10.589 pazienti. Nella patologia paratiroidea il soggetto presenta in fase acuta sintomi neuromuscolari che vanno dai crampi alla crisi tetanica, perché se il calcio è basso il nostro muscolo si contrae e non è in grado di rilassarsi. La malattia, inoltre, può indurre nel paziente confusione mentale e depressione, il cosiddetto “brain fog” (annebbiamento mentale), causati anch’essi dalla carenza di calcio. Spesso la sintomatologia viene confusa con una malattia neuropsichiatrica. Se non curata adeguatamente, questa condizione può provocare anche alterazioni del ritmo cardiaco che portano frequentemente il paziente al Pronto Soccorso in condizioni critiche e, in alcuni casi, letali. Le complicanze a lungo termine includono calcificazioni nei tessuti molli, insufficienza renale unitamente all’aumentato rischio di nefrolitiasi e nefrocalcinosi, nonché alterazioni cardiovascolari con aumentato rischio di aritmie e disturbi della conduzione elettrica cardiaca. Inoltre, si riscontra una maggiore incidenza di problemi oculari, come la cataratta, e un aumento del rischio di infezioni. L’ipoparatiroidismo, oltre a causare insufficienza renale, provocata da depositi di calcio nei reni, comporta una condizione a basso turnover scheletrico: l’osso risulta infatti avere una scarsa capacità di ricambio che potrebbe giustificare il potenziale aumento del rischio di frattura. Questo sembra essere la base fisiopatologica della potenziale fragilità ossea, che è un ulteriore segno della malattia».

Quali esami consigliare per poter intervenire in tempo?
«Innanzitutto la calcemia, ovvero il livello di calcio nel sangue: se è al di sotto della media e accompagnata ad alcuni dei sintomi prima descritti, potrebbe far sospettare questa patologia. Così pure il dosaggio di paratormone (PTH), che a sua volta regola i livelli di calcio nel sangue e ne favorisce l’assorbimento intestinale e la sua concentrazione nelle ossa. E poi l’ormone tiroideo (TSH): se elevato è indicatore di ipotiroidismo con scarsa produzione di ormoni tiroidei, tiroxina T4 e T3. Di solito questa carenza è legata anche alla mancata o scarsa produzione di vitamina D che favorisce l’assorbimento di calcio nelle ossa».

Quali terapie sono utilizzate per contrastare i sintomi di questa patologia?
«Negli anni, la gestione dell’ipoparatiroidismo si è basata principalmente sul controllo dell’ipocalcemia attraverso supplementi di calcio e vitamina D attiva, senza però offrire una reale terapia sostitutiva del PTH», conferma la dottoressa Valentina Camozzi. «Nella comune pratica clinica, non è mai stato disponibile un trattamento ottimale, poiché le cure si limitano a contrastare il sintomo principale, ovvero l’ipocalcemia, attraverso l’uso di vitamina D attiva e supplementi di calcio, spesso mal tollerati e non sempre sufficienti a garantire una stabilità della calcemia. Si sono raggiunte persino 9 somministrazioni al giorno di teriparatide sottocute (analogo dell’ormone paratiroideo) che viene usato anche per le forme gravi di osteoporosi. Questo comporta per i pazienti una gestione quotidiana complessa, con il rischio costante di crisi ipocalcemiche, ipercalciuria e danni renali. Talora è possibile l’utilizzo “off label” di un prodotto per i casi più severi che riesce a gestire, anche se solo in parte, le criticità dei pazienti. Di recente è stata introdotta una terapia innovativa, con una sola somministrazione al giorno, palopegteriparatide, che rappresenta una svolta: grazie al suo rilascio prolungato, infatti, consente di mantenere i livelli di calcio stabili nell’arco delle 24 ore, riducendo la necessità di supplementi e migliorando sensibilmente la qualità di vita, contenendo anche i rischi di sviluppare danni ad altri organi». Attualmente questo farmaco ha ricevuto l’approvazione della FDA americana e dell’EMA europea, ma non dell’AIFA: quindi in Italia non è ancora disponibile, ma speriamo presto di poterlo utilizzare. «E potrebbe diventare un farmaco rivoluzionario, come è stata in passato l’insulina per una malattia come il diabete. Diventando così una terapia sostitutiva del paratormone, nei casi in cui le ghiandole paratiroidi non riescono più a produrlo», conclude la dottoressa Camozzi.

di Paola Trombetta

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