Si era sottoposta a questo test, Angelina Jolie, prima di decidere per l’intervento di mastectomia prima e ovariectomia radicale poi. La conferma del test aveva infatti evidenziato la presenza di alterazioni del gene BRCA 1, segno inequivocabile di un rischio aumentato, dell’80%, di ammalarsi di tumore al seno e del 60% all’ovaio. Un test che dovrebbe essere eseguito da tutte le donne che hanno avuto un tumore all’ovaio, o tumori multipli (seno e ovaio), soprattutto in giovane età. Ma che ancor oggi non tutti i centri di genetica sono in grado di garantire.
«Sono stata operata a maggio dell’anno scorso per un carcinosarcoma ovarico e nessuno, né il chirurgo, né l’oncologo, mi hanno detto dell’esistenza di questo test, di cui sento parlare solo ora», puntualizza Maria Lara, 65 anni di Prato, che abbiamo incontrato all’evento di Milano: “Miti e verità sul rischio genetico e sul test BRCA”, promosso da ACTO Onlus (Alleanza Contro il Tumore Ovarico), con il patrocinio di Unamsi (Unione Nazionale Medico Scientifica di Informazione). «E per di più vengo a sapere solo oggi che questo test è fondamentale per adottare la terapia più mirata! Ho fatto sei cicli di chemioterapia tradizionale con carboplatino e taxolo e ora sto facendo la terapia di mantenimento con bevacizumab. Chi mi dice che questi siano i farmaci più adatti a me? E soprattutto: non sarebbe opportuno fare il test anche a mia figlia, che ha 42 anni, e magari è a rischio di sviluppare un tumore?».
Per rispondere a questi quesiti e a tutte le eventuali domande che le donne con tumore all’ovaio si pongono nella quotidianità della loro malattia, abbiamo intervistato la dottoressa Domenica Lorusso, del Dipartimento di Oncologia Ginecologica della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Quanto è importante per una paziente con tumore ovarico sapere se la sua malattia è legata alla mutazione dei geni BRCA?
«È molto importante oggi per una paziente sapere se il suo tumore ha questa mutazione genetica, sia dal punto di vista prognostico, perché i tumori con questa mutazione sembrano rispondere meglio ad alcuni tipi di chemioterapie (come il platino, la doxorubicina liposomiale pegilata e la trabectedina), e soprattutto perché oggi abbiamo farmaci mirati per tumori con questa particolare caratteristica genetica. È perciò fondamentale acquisire tale informazione sin dall’inizio e non aspettare la recidiva di malattia. E’ noto che i tumori legati a questa mutazione esordiscono più frequentemente come tumori al IV stadio, ma sono meno aggressivi dei comuni tumori al IV stadio proprio perché rispondono meglio alla chemioterapia. E soprattutto avremo, nel giro di un paio di anni, la possibilità di usare, sin dalla prima linea di trattamento, farmaci di una classe particolare: sono i “Parp inibitori”, che hanno già dimostrato di essere molto efficaci nel controllare la progressione di malattia. Oggi si utilizzano solo come mantenimento dopo una recidiva platino sensibile se la paziente risponde al trattamento di chemioterapia».
Parliamo sempre di geni BRCA, coinvolti nel maggiore rischio di sviluppare un tumore al seno o all’ovaio e definiamo pertanto le pazienti BRCA “mutate”. Ma le altre donne senza alterazione di BRCA (BRCAness) non potrebbero avere altri geni alterati che predispongono al tumore?
Effettivamente sono diversi i geni che controllano il sistema di riparazione del DNA all’interno della singola cellula, in carenza del quale la cellula stessa può trasformarsi in tumorale. Tra questi geni il BRCA1 e BRCA2 costituiscono il 25% della probabilità di controllare il sistema. Ma abbiamo una serie di geni minori, presenti nel 20-25% delle pazienti, in cui BRCA 1 e 2 non sono mutati, ma magari non funzionano per altri motivi, oppure intervengono altri geni minori come ATM, ATR, il gene dell’Anemia di Fanconi e molti altri. Di conseguenza sia la paziente BRCA che la BRCAness non riescono a riparare il danno del DNA, per problemi genetici differenti. E’ importante sottolineare inoltre che non tutti i tumori BRCA mutati sono ereditari. Esiste una quota di tumori (circa 8-10%) che acquisiscono la mutazione sul tessuto tumorale: sono le cosiddette mutazioni somatiche del BRCA che non vengono trasmesse in maniera ereditaria, ma che comunque consentono alle pazienti che ne sono affette di poter essere trattate con gli inibitori di Parp. Se ci immaginiamo il tumore ovarico di alto grado come una torta, il 50% di questi tumori ha un deficit nel sistema di riparazione del DNA: di questi il 22% lo ha perché ha una mutazione ereditaria del BRCA, un altro 8-10% perché ha una mutazione somatica cioè solo sul tessuto tumorale, la restante quota ha una mutazione di altri geni minori che rappresenta la popolazione cosiddetta BRCAness».
Quali terapie per queste donne BRCAness?
«All’ultimo congresso Europeo di Oncologia Medica sono stati presentati i dati di uno studio clinico con un altro Parp inibitore, che è stato sviluppato per le pazienti con la mutazione del BRCA ma anche per le pazienti BRCAness, più responsive a terapie a base di platino. Il vero sforzo della ricerca dei prossimi anni sarà quello di identificare meglio le pazienti appartenenti a questa categoria attraverso test di Next Generation Sequencing, che vengono fatti sul tessuto e che ci aiuteranno meglio a identificare tutti i geni minori coinvolti nel deficit di riparazione del DNA per aprire anche a queste pazienti le opportunità di cura, oggi già consolidate per le pazienti BRCA mutate».
E se una donna sana, magari parente di una malata, scopre di avere una mutazione BRCA, come deve comportarsi?
«La necessità di identificare nella paziente con tumore ovarico la mutazione apre quello che oggi viene definito “effetto cascata”: cioè la possibilità di studiare anche i parenti sani della paziente per fornire loro un’informazione che li può proteggere dalla malattia. Avere una mutazione non significa avere con certezza il tumore, ma significa avere una maggiore predisposizione ad ammalare di alcuni tipi di tumore. Sapere questo significa armarsi contro la malattia sia in termini di sorveglianza (per esempio per il tumore della mammella, si dovrebbero eseguire esami specifici come la risonanza magnetica) sia in termini di vere e proprie strategie di rischio-riduzione. Per il tumore ovarico, queste vanno dall’utilizzo dell’estroprogestinico (la pillola contraccettiva ha dimostrato di essere protettiva sul rischio di sviluppare il tumore ovarico) a strategie più impattanti e definitive come l’asportazione delle tube o delle tube e delle ovaie, al completamento della vita fertile.
A conclusione, vorrei dare un messaggio da medico, da donna e da potenziale paziente. Oggi non è accettabile che una donna con tumore ovarico non riceva il test del BRCA per le implicazioni importanti che ha per la paziente e per la sua famiglia. Le linee guida AIOM riportano, riprendendo quelle internazionali, che tutte le pazienti con tumore ovarico non mucinoso e non borderline, alla diagnosi, debbano accedere al test del BRCA. E questa informazione genera l’effetto cascata sul resto della famiglia per prevenire un tumore che ancora oggi purtroppo uccide il 70% delle pazienti. Non è pensabile non offrire strumenti di prevenzione primaria del tumore ovarico alle pazienti BRCA mutate, le uniche sulle quali possiamo fare un’efficace prevenzione».
di Paola Trombetta
Marcatori tumorali con un esame del sangue
Sulla rivista Cancer Letter sono stati recentemente pubblicati i risultati di uno studio, realizzato con finanziamenti dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), che ha consentito di identificare una firma molecolare di microRNA (miRNA) nel siero delle pazienti affette da tumore epiteliale maligno dell’ovaio. La ricerca è stata realizzata da un gruppo di ricercatori italiani (biologi, bioinformatici e statistici) facenti capo a diversi Centri clinici (Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, Università di Ferrara, Ospedali Civili di Brescia, Università del Sacro Cuore di Roma) ed è stato coordinato dall’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. I miRNA sono delle piccole molecole di RNA che hanno importanti funzioni regolatorie. Sono molecole molto stabili e per questo si è scoperto di recente che vengono utilizzate dal tumore e dai tessuti del nostro organismo come importanti messaggeri intracellulari. In breve, funzionano sia all’interno della cellula sia dopo essere rilasciati in circolo come messaggeri di un processo tumorale o infiammatorio. «Si tratta di un campo di ricerca ancora inesplorato – spiega Maurizio D’Incalci, Capo Dipartimento di Oncologia dell’Istituto “Mario Negri” – per cui i dati vanno presi con cautela e validati in ulteriori studi. L’analisi comparativa dei profili di miRNA serici di 168 pazienti affette da tumore sieroso ad alto grado e di 65 donne di età simile, ma non affette dalla stessa malattia, ha tuttavia evidenziato differenze importanti e riproducibili. In particolare vi erano delle differenze nell’espressione di tre miRNA denominati miR1246, miR595 e miR2278». Lo studio pone le basi per successive ricerche mirate a valutare se la misura di questi miRNA possa essere utilizzata per una diagnosi più precoce del tumore ovarico. Inoltre i successivi studi serviranno a stabilire se gli stessi biomarcatori sono potenzialmente utili per misurare l’efficacia della terapia in modo più sensibile e precoce rispetto alle valutazioni tradizionali di tipo radiologico. «La possibilità di rintracciare nel sangue di un paziente le molecole che sono rilasciate dai tumori – conclude Maurizio D’Incalci – rappresenta un nuovo, valido strumento, anche meno invasivo, per migliorare i percorsi diagnostici e terapeutici». P.T.