Quando non si può guarire è possibile curare per consentire di vivere con una buona qualità di vita. L’Italia è stato tra i primi paesi in Europa a stabilire con una legge fortemente innovativa (la 38/2010) il diritto di ogni persona alla cure palliative, quando il dolore diventa insopportabile e la malattia degenera senza possibilità di guarigione. Secondo un’indagine della Fondazione cure palliative solo il 30% dei pazienti oncologici, in fase terminale, riesce ad accedere a questo servizio garantito dalla sanità pubblica. E gli hospice sono ancora pochi in Italia: 263 con 2524 posti letto, secondo i dati del Ministero della Salute e mal distribuiti sul territorio, con un evidente differenza tra Nord e Sud. «Sgombriamo subito il campo da equivoci: le cure palliative non accompagnano il malato a morire, ma a vivere la fase terminale di vita nel migliore dei modi. La differenza è fondamentale», spiega Laura Campanello, che abbiamo intervistato in previsione della Giornata nazionale delle Cure Palliative dell’11 novembre. Laura non è un medico, è una filosofa ed è consulente etica nelle cure palliative. Ha lavorato presso l’Hospice Floriani dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e ora nel reparto Sla e stati vegetativi della Rsa Villa dei Cedri di Merate. Cura la sofferenza dell’anima con gli strumenti della filosofia.
Che cos’è un hospice?
«Potrei dire che è un luogo non solo di un corpo malato, ma anche di un’anima. Sono strutture dove ci si prende cura, grazie a un’équipe multidisciplinare composta da medici infermieri, psicologici, fisioterapisti, assistenti spirituali, della sofferenza del malato. Di un dolore totale che tocca la persona non solo nel suo corpo, ma interessa le sue emozioni, le sue relazioni e la sua domanda di spiritualità».
Nel suo lavoro negli hospice si confronta con la morte, la malattia e il lutto ogni giorno. Cosa le ha insegnato l’esperienza con i malati terminali?
«A vivere il qui e ora. A godere di ciò che la vita ci concede invece di lamentarci per ciò che non abbiamo o aspettare la felicità in un assurdo gioco d’azzardo, immaginando di avere un tempo infinito. Siamo tutti “terminali”. C’è una frase bellissima che appartiene a Confucio: “Abbiamo due vite, la seconda inizia quando ci accorgiamo di averne una sola”».
Ha recentemente pubblicato con Mursia due libri Sono vivo, ed è solo l’inizio; Leggerezza. Una riflessione filosofica sulla morte, un tema che non vogliamo mai affrontare e che la nostra società fa di tutto per dimenticare. Cosa l’ha spinta a scriverlo?
«Se ci dimentichiamo o non parliamo di questa parte della vita, ci dimentichiamo di vivere pienamente. La morte è il grande tabù dei nostri tempi. Da un lato, la morte è ostentata in tutti i modi, va in scena sulle prime pagine dei giornali e nei notiziari tv, sta diventando un’esperienza mediatica, artificiale, distaccata, spettacolarizzata, ma poi è negata nei nostri discorsi più intimi. Viviamo come se la morte non facesse parte della vita, la rimuoviamo, la neghiamo, parlarne è persino considerato sconveniente. Il malato che pure ha bisogno di parlare di ciò che prova, per non turbare chi lascia, sta al gioco e non esprime il proprio dolore».
Ma perché è così importante parlarne?
«Ognuno di noi vive come se fosse immortale e così non diamo valore realmente al tempo, alle nostre relazioni, alla ricchezza del momento presente, unico e irripetibile. La morte va nominata, saputa, presa in considerazione perché è quel pungolo per vivere in maniera vera e intensa il tempo che abbiamo, coltivando proprio la meraviglia dell’esistere – altro concetto caro alla filosofia greca –. Lungi dal gettare sulla vita un’ombra angosciosa, questa consapevolezza della morte ci obbliga a porci la domanda fondamentale circa il senso della nostra esistenza. E conseguentemente, spesso, a trasformarla, puntando energicamente verso ciò che davvero conta per noi e ci sta a cuore. “Di questa vita cosa ne facciamo?” è la vera domanda. Ed è bene che impariamo a porcela fin da ora, giorno per giorno».
Affrontare la morte serenamente: è possibile?
«Non c’è un modo unico per affrontare questa esperienza, non esiste una pratica bella e pronta da potersi applicare in ogni situazione. Vari sono i bisogni, le emozioni, i meccanismi di difesa, le reazioni psicologiche, la storia individuale. Morire sazi di giorni e paghi di ciò che si è stati non ha a che fare con la quantità di tempo che si è vissuto, quanto con la scelta di un modello di vita grazie al quale poter arrivare alla morte con la consapevolezza di avere vissuto, grati di ciò che si è avuto, perdonando ciò che non si è potuto avere o non si è potuti essere. Ma molto dipende anche dalla difficoltà o impossibilità ad esprimere i propri vissuti e a comunicare, proprio nei momenti in cui si ha più bisogno di ascolto e di vicinanza, le proprie esperienze interiori. Per questo le persone alla fine della loro vita vanno aiutate a congedarsi dagli altri, a fare bilanci, a chiudere il cerchio della loro esistenza insieme a chi con loro l’ha condivisa, senza restare prigionieri di silenzi e della negazione sulle verità di quanto accade».
Imparare a dirsi addio. Qualche piccolo suggerimento al malato e ai familiari che cercano risposte e strumenti per affrontare il dolore?
«C’è una sorta di rimozione totale di fronte alla perdita estrema: la morte di una persona cara. Chi la subisce vive il proprio lutto in silenzio. Chi vorrebbe essere d’aiuto non trova le parole per consolare chi soffre. Il primo suggerimento che mi viene da dare è di non avere paura della propria fragilità, di lasciare emergere le emozioni e le paure che circondano l’evento della perdita. Siamo tutti tentati di rimuovere le emozioni più difficili e dolorose. Per difenderci da questa fragilità spesso però si negano dialoghi e vicinanze che in realtà sono fondamentali. La morte innominata aggiunge sofferenza al paziente e a chi gli sta intorno».
di Cristina Tirinzoni