Maria Cristina D’Agostino, ortopedica e traumatologa, ha fatto delle “onde d’urto” una scelta professionale che l’ha condotta, grazie alla determinazione e passione per il proprio lavoro, a ricoprire una posizione importante.
Oggi è responsabile del Centro Terapia e Ricerca Onde d’Urto dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano), vicepresidente SITOD (Società Italiana Terapia Onde D’urto) e già presidente della Società Internazionale ISMST (nel 2014).
Un destino scritto nel DNA? Forse, nel quale però anche il fato ci ha messo lo zampino, come ci racconta in un’intervista esclusiva.
Qual è stata la motivazione che l’ha spinta a intraprendere un percorso di carriera difficile, in un grande ospedale, fino a raggiungere un’importante affermazione professionale?
«Il mio avvicinamento alle onde d’urto è legato a una coincidenza curiosa, cominciata nel 1996. Allora ero una giovane neospecialista in ortopedia e il professor Tessari, allora direttore della Clinica Ortopedica dell’Ospedale S. Raffaele presso il quale lavoravo, mi esortò a fare tirocinio su queste terapie, al tempo utilizzate in urologia per frantumare i calcoli renali, e ancora del tutto pionieristiche in altri ambiti. Di buon grado (anche perché “ufficialmente investita” di questo incarico), cominciai a studiare questa tecnica e mi ci appassionai sin dall’inizio, sia per le potenzialità terapeutiche innovative che presentava (a quei tempi solo in ambito ortopedico e riabilitativo), sia per le grandi soddisfazioni in campo clinico, legate agli importanti effetti terapeutici che osservavo. In quegli anni, assieme all’attività di ricerca e alla pratica delle onde d’urto, continuavo anche l’operatività ospedaliera ortopedica e traumatologica (reparto, sala operatoria e pronto soccorso traumatologico). Poi, nel 2002, mi trasferii presso l’Istituto Clinico Humanitas, dove proseguii la mia esperienza chirurgica di ortopedico e traumatologo, ma nel settore specifico della chirurgia della mano; contestualmente, sempre in Humanitas, ebbi anche l’opportunità di proseguire l’attività delle onde d’urto a un più alto livello».
A un certo punto ha però deciso di dedicarsi esclusivamente alle onde d’urto, come mai?
«Nel giro di pochi anni, crescendo gli impegni e il coinvolgimento scientifico a livello nazionale e internazionale nel campo delle onde d’urto (nel frattempo avevamo intravisto i nuovi orizzonti di questa tecnica nella “Medicina Rigenerativa”), e dovendo scegliere in quale ambito canalizzare energie ed esperienze, complice anche una serie di fattori e contingenze favorevoli, decisi di abbandonare l’attività chirurgica per dedicarmi “full time” alla pratica e alla ricerca nel campo delle onde d’urto. E’ stata una decisione un po’ sofferta abbandonare la chirurgia e passare dall’ortopedia alla riabilitazione ma, da subito, ho avuto modo di riconoscere che la riabilitazione è una specialità che offre la possibilità di perseguire grandi soddisfazioni professionali, e anche di apprendere e studiare molti aspetti e potenzialità dell’apparato muscolo-scheletrico e della locomozione che mai prima avrei immaginato».
Quali sono i progressi nel campo della Medicina Rigenerativa?
«Ormai si parla di “Riabilitazione Rigenerativa”. Come dicevo, grandi progressi sono stati fatti proprio con le onde d’urto: questa terapia è diventata (e non solo in Italia) materia di insegnamento nelle scuole di specializzazione e nel giugno scorso si è concluso il primo Corso Universitario di Perfezionamento in Onde d’Urto, organizzato dall’Università di Torino con la partnership di Humanitas, di cui ho avuto l’onore di essere Coordinatore e parte del corpo docente. Stiamo già lavorando alla preparazione del Corso per quest’anno. Ad oggi, quindi, seppure il mio ambito di lavoro sia prevalentemente la pratica clinica, non disdegno la ricerca e l’insegnamento. Sono onorata di far parte dal 2014 del corpo docenti dell’“Open Faculty” di Humanitas University (Facoltà di Medicina), nata di recente all’interno del nostro ospedale e di cui apprezzo il fermento scientifico e culturale».
Nel momento in cui ha dovuto scegliere la specialità, perché ha preferito la traumatologia e l’ortopedia?
«C’è stata in parte un’ influenza familiare: papà chirurgo e mamma fisioterapista (oggi entrambi in pensione) hanno alimentato sicuramente il mio interesse verso la medicina in generale, e l’apparato muscolo-scheletrico in particolare. A ciò si aggiunse che, mentre studiavo medicina al San Raffaele, era offerta la possibilità agli studenti di fare internato di ricerca in ortopedia, proprio sul metabolismo osseo: opportunità che colsi immediatamente, affascinata dalla ricerca in generale. Così iniziò e si approfondì la mia passione per l’aspetto osseo in tutte le sue sfaccettature».
Ci sono stati ostacoli, soprattutto all’inizio della sua carriera, che ha dovuto affrontare per farsi apprezzare e che cosa ha poi ricompensato questi sforzi?
«Per quel che mi riguarda, posso un po’ sfatare l’idea che noi donne abbiamo vita molto difficile in certi ambiti lavorativi; per me fortunatamente non è stato così, e forse oggi non esiste più (o comunque è attenuata) quella discriminazione che vigeva un tempo in discipline chirurgiche più ad appannaggio maschile, come l’ortopedia. Quando entrai in specialità, i colleghi erano praticamente tutti uomini; adesso le percentuali sono cambiate e anche le donne trovano più facilmente i propri ambiti di affermazione. Non basta però “tirare fuori le unghie”, per raggiungere una posizione: occorre anche la volontà di “non mollare”, di rimettersi in gioco continuamente e rimboccarsi le maniche ogni qual volta sia utile. Alla fine i sacrifici e l’impegno vengono quasi sempre apprezzati. Sono comunque molto grata a tutti i colleghi che ho incontrato e che mi hanno aiutato nella formazione all’inizio della mia carriera, insegnandomi, oltre alla materia scientifica, anche lo spirito di “sacrificio e di dedizione al lavoro”. Ciò che sembrava allora una “tortura” (giornate senza orario né festività) si è rivelato poi essere un’importante scuola di vita. E poi tutti i colleghi con cui da anni collaboro con grande stima e fiducia reciproche: le onde d’urto, per l’ampia gamma di patologie che possiamo curare oggi, offrono davvero la possibilità di grande interazione con molti altri professionisti, con un continuo scambio di sapere e di esperienze. Includo nel computo anche tutti i miei “capi”, che si sono succeduti negli anni in cui ho cambiato Unità Operative: hanno avuto fiducia in me e mi hanno aiutata a maturare, sia dal punto di vista professionale che umano».
Di certo anche la sua famiglia l’avrà sostenuta…
«Sì, la mia famiglia e mio marito mi hanno sempre supportata nelle mie scelte e capito: ringrazio tantissimo anche loro. Posso dunque dire di aver vissuto e di vivere bene l’essere donna in mezzo agli ortopedici, grazie forse a una personalità con “spalle robuste” (i miei genitori mi hanno sempre spinto ad andare avanti e a puntare al meglio), sia agli insegnamenti ricevuti, di cui ho cercato di fare tesoro. Ho appreso l’importanza di non sminuirsi mai: farsi vedere deboli presta il fianco all’attacco; far valere i propri talenti, trasformando anche una possibile debolezza in un punto di forza, alla fine premia. Sempre».
Con la consapevolezza della sua esperienza di oggi farebbe ancora la stessa scelta professionale?
«Sì, certo e con maggiore convinzione. Nonostante, come in qualsiasi altra professione, ci siano stati “alti e bassi”, sono sempre stata abituata a guardare avanti, disposta anche a cambiare rotta, se necessario, senza mai voltarmi o avere rimpianti. L’apertura al cambiamento è uno dei presupposti per riuscire ad andare avanti».
Come riesce a conciliare la sua vita di donna e di medico? Ha dovuto fare rinunce importanti?
«Non è sempre facile… gli orari continuano ad essere impegnativi; spesso sono via per corsi e congressi oppure trascorro le serate e i fine settimana lavorando al computer per preparare lezioni e diapositive. Fra un po’ di anni i ritmi dovranno necessariamente rallentare, ma per il momento siamo ancora in una “fase di semina” e di investimento. Occorre prima sacrificarsi per poi raccogliere i frutti, che spero consentiranno di vivere al meglio anche gli altri bellissimi aspetti della vita. Non esiste sempre e solo il lavoro… Nonostante i numerosi impegni di lavoro e scientifici, riesco comunque a ritagliare un po’ di tempo, durante il weekend, per dedicarmi al mio sport preferito, il pattinaggio artistico su ghiaccio, con la mia inseparabile compagna di evoluzioni, mia sorella Patrizia (la “Sister”). Non vi nascondo che spesso, a causa del ghiaccio, divento paziente di me stessa, talvolta anche ricorrendo alle onde d’urto».
Che dire ancora? Esistono una Società Internazionale per la Terapia ad Onde d’Urto (International Society for Medical Shockwave Treatment – ISMST), e anche una Società Italiana di Terapia con Onde D’urto (S.I.T.O.D.) di cui la dottoressa D’Agostino, oggi vicepresidente è in corsa per la presidenza. I nostri migliori auguri per il raggiungimento di questa nuova prestigiosa carica.
di Francesca Morelli
Che cosa sono le onde d’urto, per quali patologie sono indicate e quali risultati possono dare?
Le onde d’urto sono stimolazioni acustiche (onde di natura meccanica) che, prodotte da un generatore, con l’interposizione di un gel, vengono trasmesse dalla superficie della pelle agli strati più profondi, attivando le cellule e inducendo importanti reazioni biologiche. In generale, in ambito muscolo scheletrico (ma non solo), le onde d’urto possono essere considerate una valida terapia di tipo biologico-rigenerativo, capace di controllare il dolore, di modulare l’infiammazione e di ripristinare il normale funzionamento dei tessuti, in taluni casi ottenendo anche la guarigione o rigenerazione nel senso più proprio del termine. In relazione a queste potenzialità, le onde d’urto trovano ampia applicazione nelle patologie dei tendini (acute e croniche), dell’osso (specie in caso di fratture che non guariscono), oltre che dei muscoli, applicazione – questa – di più recente acquisizione. Già da molti anni utilizzate per ridurre la spasticità dei bambini e degli adulti (dopo ictus o emorragia cerebrale), solo di recente sono state introdotte nella pratica clinica anche per il recupero delle lesioni muscolari, indotte per esempio da traumi sportivi. In dettaglio, sembra che l’applicazione delle onde d’urto, in questi casi, faciliti la riparazione del danno muscolare, con minima formazione di fibrosi, oltre che offrire la possibilità di ridurre la fatica muscolare dopo una prestazione fisica o un allenamento.
L’ambito rigenerativo per eccellenza riguarda ulcere, piaghe o lesioni cutanee che non guariscono, così come le cicatrici dolorose, nonché l’interessante capitolo della medicina estetica con il trattamento della cellulite e delle rughe. A ciò si aggiunga anche l’applicazione dopo interventi di chirurgia plastica, per facilitare il drenaggio dei liquidi e il rimodellamento dei tessuti.
Le onde d’urto sono da considerarsi una terapia che dipende strettamente dall’operatore e dalla tecnologia: i benefìci per il paziente sono infatti associati alla best practice di esperienza e strumentazione, dalla cui ottimizzazione derivano i migliori vantaggi. Si tratta di una terapia non invasiva, molto bene accetta dal paziente e ripetibile. Il ciclo standard (specie in ambito muscolo scheletrico), è costituito da tre trattamenti, a cadenza settimanale (ma anche personalizzabile se necessario). E’ sostanzialmente priva di effetti collaterali, se si esclude una possibile riacutizzazione della sintomatologia post-terapia, ciascuna seduta ha durata variabile da 10 fino anche a 30 minuti, secondo la problematica da trattare. I benefici possono essere immediati, come in alcuni casi di rapida riduzione del dolore, mentre per ciò che riguarda l’aspetto rigenerativo (osso e pelle) possono essere necessari anche 2-3 mesi. Relativamente alla rimborsabilità da parte del Sistema Sanitario Nazionale, è prevista in Lombardia, con diversità e variazioni legate alle singole Regioni. F. M.