“Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e sofferenze, discriminazione e predicazione dell’odio, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare. L’ho sempre fatto, non dimenticando e non perdonando, ma senza odio, né spirito di vendetta. Sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”. Queste le prime parole di Liliana Segre sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, appena nominata Senatrice a vita dal presidente della Repubblica per “aver onorato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”. È la quarta donna a ricoprire questa carica, dopo Camilla Ravera, Rita Levi-Montalcini ed Elena Cattaneo. Una nomina di grande valore simbolico che arriva a ridosso del “Giorno della memoria” (27 gennaio), proprio nell’anno in cui ricorre l’80esimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia. È una risposta al ritorno del razzismo e dell’intolleranza.
Liliana Segre ha oggi 87 anni, tre figli e tre nipoti, una vita ancora piena di interessi e di impegni; ne aveva tredici quando fu chiusa in un treno e deportata ad Auschwitz. Una storia dura, ma che non può essere dimenticata, “perché è una storia che riguarda tutti noi, in un momento in cui l’antisemitismo e l’odio razziale, nascosto dietro il concetto d’identità, è vivo e vegeto in Europa”. Liliana Segre è nata a Milano nel 1930 in una famiglia ebrea. Persa la madre in tenera età, quando non aveva ancora compiuto un anno, ha vissuto con il padre Alberto e i nonni paterni. “Il 5 settembre 1938 ho smesso di essere una bambina come le altre… Un giorno a tavola tuo padre ti dice che non puoi più frequentare la scuola, che non andrai in terza elementare. E io non capivo: me ne stavo lì come se avessi fatto qualcosa di male”.
Dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia, discriminata in quanto “alunna di razza ebraica”, viene espulsa da scuola e a poco a poco il suo mondo si sgretola. C’è qualcosa di peggio del non poter più andare a scuola: è l’indifferenza degli altri, il silenzio, l’alzata di spalle della maestra Cesarina che, invitata a casa per darti conforto, dice: “non le ho mica fatte io le leggi”. E poi le compagne che non ti cercano più, il vicino di casa che smette di salutare la tua famiglia, gli amici che spariscono e nei negozi si legge: “Vietato l’ingresso ai giudei e ai cani”. È costretta a nascondersi fino al drammatico arresto, assieme al padre e a due cugini, sul confine svizzero, il 10 dicembre del 1943 nel tentativo di fuggire appunto in Svizzera. Il 30 gennaio 1944, dopo l’esperienza del carcere di San Vittore, dove Liliana viene rinchiusa per 40 giorni, viene caricata su uno dei convogli piombati che, dal famigerato binario 21 della Stazione Centrale di Milano, partono per i lager nazisti. “In un attimo uomini, donne e bambini vengono separati. Lascio la mano di mio padre… Non sapevo che non l’avrei più rivisto”. Destinazione Auschwitz-Birkenau. Alla selezione, le viene imposto e tatuato sull’avambraccio il numero di matricola 75190. Il padre e i nonni vengono uccisi all’arrivo nel campo di sterminio. Lei trascorre oltre un anno ai lavori forzati nella fabbrica di munizioni “Union”, di proprietà della Siemens. Quando viene liberata, con l’arrivo degli Alleati, il 1° maggio 1945, insieme agli altri prigionieri, pesa 32 kg. Rientrata a Milano, Liliana vive con i nonni materni: nel 1948 conosce casualmente sulla spiaggia di Pesaro Alfredo Belli Paci, il suo “ritorno alla vita”, anche lui sopravvissuto all’olocausto, che sposerà nel 1951 e dal quale ha avuto tre figli.
Gli anni del silenzio e quelli, invece, della testimonianza
Non è mai più ritornata ad Auschwitz. Per oltre quarant’anni Liliana Segre è rimasta nel silenzio. “Quello che abbiamo vissuto è stato talmente indicibile! Reduce dall’inferno, ho imparato a tenere per me i ricordi tragici e la mia profonda tristezza”. Un silenzio pesantissimo. “Ho affrontato anni da disadattata, disperata di essere viva, sentendo che la banalità dell’esistenza non poteva accogliere l’enormità dei torti subiti”. Liliana scopre che nessuno ama ascoltare il suo racconto. “Non toccare mai quell’argomento!”, le dice la superiora delle Marcelline quando torna a scuola dopo il lager. Semplicemente non si voleva sapere, e men che meno si voleva ricordare come e da chi era stato reso possibile tutto questo. “Un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza”. Solo nei primi anni 90, dopo 45 anni di silenzio, Liliana ha incominciato a partecipare ad alcuni incontri, portando nelle scuole e nelle università la sua testimonianza di ex deportata, soprattutto per sensibilizzare i ragazzi. Non smetterà più. “Non sapevo se le parole mi sarebbero uscite senza gridare, senza piangere, senza bloccarmi. Invece è stata una liberazione”, ricorda. Ed è in questa direzione, la testimonianza, che si inquadrano i due libri usciti nel 2015, in cui racconta la sua storia per i ragazzi: Fino a quando la mia stella brillerà (Piemme), scritto con Daniela Palumbo e con la prefazione di Ferruccio de Bortoli; per un pubblico adulto, La memoria rende liberi (Rizzoli), nato per la collaborazione con Enrico Mentana. “E’ questione di pochi anni e poi non ci saranno più testimoni della vita della Shoah. Per Liliana Segre coltivare la memoria è anche salvare dall’oblio quelle storie, quelle voci ormai lontane che rischiano di perdersi per sempre nell’indifferenza. “Il male peggiore è proprio l’indifferenza per il dolore altrui, di chi guarda e non interviene”, ricorda spesso Liliana Segre. “Tutto comincia da quella parola. Gli orrori di ieri, di oggi e di domani finiscono all’ombra di quella parola. Occorre difendersi più dall’indifferenza che dalla violenza, perché quando credi che la sofferenza di un essere umano non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è più limite all’orrore”.
di Cristina Tirinzoni
Ravensbrück, il lager delle donne
In occasione del Giorno della Memoria, sabato 27 gennaio alle ore 17 alla Biblioteca Mabic del comune di Maranello (Modena), è in programma “Ravensbruck: il lager delle donne”, a cura del circolo culturale Artemisia Gentileschi. Ravensbrück era il più grande campo di concentramento della Germania nazista destinato soltanto alle donne e gestito solo da guardie donne, aguzzine e feroci. Una volta internate, le prigioniere erano rasate e dovevano indossare il Winkel, un triangolo di stoffa colorato che indicava il motivo della detenzione: triangolo giallo per le ebree, rosso per le deportate politiche, verde per le criminali comuni, viola per le Testimoni di Geova, nero per zingare prostitute e lesbiche. Qui, tra il maggio del 1939 e l’aprile del 1945, oltre 100mila donne furono sterminate. Morirono per gli stenti, le torture, le malattie, anche uccise con il gas. Furono ridotte a schiave, prostitute e usate come cavie dai medici del campo. Alle “cavie”, soprannominate i “conigli” di Ravensbrück, venivano appositamente spezzate le ossa, lacerati i muscoli, talvolta amputati gli arti, giusto così, per vedere se poi era possibile ricostruirli. Per accelerare lo sviluppo della cancrena, nelle ferite venivano inseriti pezzi di stoffa, di legno, terra, cocci di vetro. Alcune delle donne sopravvissute hanno raccontato ciò che le salvò: non la rabbia, che la debolezza aveva smorzato; non il desiderio di vita, che si era perso con la speranza; non la violenza, che era impossibile di fronte alla prepotenza dei più forti, bensì la solidarietà. Debilitate, distrutte, depauperate di qualsiasi dignità umana, queste donne trovarono la forza di riunirsi e organizzarsi per sopravvivere all’interno del campo: elaborarono una rete di aiuti e coperture per le più deboli, istituirono persino corsi scolastici segreti, nel buio della notte, quando le guardie non potevano ascoltare. C. T.