«Mi chiamo Imma e ho 37 anni, ma quando ho ricevuto un nuovo fegato ne avevo solo 17. Tutto è cominciato a 14 anni, quando mi venne diagnosticata una malattia rara, chiamata “adenomatosi epatica”, che comporta la formazione di tumori benigni nel fegato. Dopo innumerevoli consulti in diversi ospedali, da Napoli a Bruxelles, sono finalmente approdata a Padova, dove mi hanno sottoposta a due resezioni epatiche, nella speranza che questi adenomi non sarebbero più ricresciuti. A distanza di un anno, gli adenomi purtroppo si sono ripresentati. A questo punto i medici decisero di mettermi in lista per il trapianto: il 27 febbraio 2002 ho ricevuto un fegato nuovo. Da quel giorno sono passati 15 anni. All’inizio, però, ho avuto paura di non poter avere una vita normale. E soprattutto di non riuscire ad avere figli. Sognavo spesso di avere il pancione e tenere tra le braccia una bambina, ma sapevo che sarebbe stato molto difficile. Dopo ben dieci anni, il mio sogno si è avverato. Il 14 luglio 2013 è venuta alla luce Anna, che pesava 3 kg. Oggi ha 4 anni ed è un dono ricevuto dal Cielo! Se Anna è con noi, lo devo soprattutto al mio donatore e ai medici dell’ospedale di Padova che mi hanno seguito durante la malattia e la gravidanza».
Il racconto di Imma è pubblicato, assieme ad altre storie di trapianti, nel libro: “Una storia per la vita” (Edizioni Paguro), promosso dalla Fondazione Marina Minnaja, in ricordo di una ragazza ventenne che invece non è riuscita a vivere dopo il trapianto.
Ma in quanti sopravvivono a un trapianto di fegato? E quanti se ne fanno? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Patrizia Burra, associato di Gastroenterologia, all’Università degli Studi di Padova e Past President della International Liver Transplantation Society (ILTS).
Quante persone oggi in Italia sopravvivono a un trapianto di fegato? E quanti sono i trapianti nell’arco di un anno?
«In Italia, la sopravvivenza del paziente trapiantato di fegato varia dal 75% all’85% a cinque anni dal trapianto, con differenze che possono dipendere dall’eziologia della malattia epatica che ha portato all’intervento (ad esempio, nel caso della cirrosi, è diverso se è causata da un virus, dall’eccessivo consumo di alcool o dall’obesità) e dalle condizioni cliniche del paziente al momento dell’intervento. Abbiamo anche casi di pazienti che sopravvivono 20 anni dopo il trapianto. Ciò che è importante sottolineare è che l’Italia, in cui operano 21 Centri autorizzati al trapianto di fegato, seppure con alcune differenze regionali, ha una Medicina dei Trapianti d’eccellenza e dati di sopravvivenza molto positivi, che ci consentono di confrontarci con gli altri Paesi europei all’interno del European Liver Transplant Registry. Lo stesso vale per il sistema delle donazioni, oggi confrontabile con il resto d’Europa. Dopo oltre dieci anni di stasi, l’attività di donazione ha registrato, nel 2016, un aumento di donatori e, quindi, un aumento del numero complessivo dei trapianti. Se nel 2005 i trapianti erano stati 1.053, a dieci anni, nel 2015, se ne registravano 1.071. Finalmente, con il 2016, si è osservata una crescita record, sia dei donatori, che sono aumentati dell’11,5% rispetto al 2015, sia del numero dei trapianti, incrementati del 13%, per un totale nel 2016 di 1.213. Questo trend positivo si è mantenuto nel 2017, con un numero totale di trapianti pari a 1.296, supportato dall’aumento della sopravvivenza dell’organo e del paziente, e dal miglioramento della qualità di vita dopo il trapianto, a conferma di quanto questa attività rappresenti un’eccellenza nel nostro Paese».
In quali casi si rende necessario il trapianto di fegato? Esistono differenti patologie nelle donne rispetto agli uomini?
«Il trapianto di fegato è necessario per le malattie epatiche croniche, acute e fulminanti, quando le terapie farmacologiche e chirurgiche non sono in grado di assicurare la sopravvivenza del paziente. Stiamo parlando di un’opzione terapeutica che, negli ultimi decenni, ha visto ampliare le proprie indicazioni, affermandosi come terapia d’elezione in pazienti con funzione d’organo compromessa, sia in età adulta-anziana (entro 70 anni), che in età pediatrica. Le indicazioni per il trapianto appartengono a due grandi categorie: la malattia cronica del fegato e l’epatite fulminante. Nel primo caso, ci riferiamo alla cirrosi epatica, più frequente negli uomini, che si associa a complicanze gravi e complesse da gestire, sia con le terapie farmacologiche e con le procedure endoscopiche, sia con intervento radiologico o chirurgico (in presenza di noduli tumorali nel fegato). Rientra invece nella seconda categoria per l’indicazione al trapianto, con incidenza inferiore alla cirrosi, l’epatite fulminante, più diffusa nelle donne, che può sopraggiungere all’improvviso in un fegato sano fino al giorno prima, compromettendo in maniera acuta la funzione dell’organo e mettendo a rischio la vita del paziente. In questo caso, l’opzione del trapianto resta l’unica possibile, ed è soggetta a una procedura di valutazione molto rapida, di pochi giorni se non addirittura ore, diversamente dalla malattia cronica del fegato, rispetto alla quale l’epatologo ha a disposizione anche mesi. Negli ultimi anni si è modificato il panorama relativo al trapianto per malattia epatica HCV-correlata: grazie all’efficacia delle nuove terapie antivirali, sono diminuiti del 10-25% i pazienti inseriti in lista per complicanze della cirrosi, mentre permane l’indicazione al trapianto per i pazienti con cirrosi da HCV che hanno sviluppato una neoplasia del fegato. Altre indicazioni sono l’epatocarcinoma, che rappresenta in Italia fino al 40% delle indicazioni al trapianto, la cirrosi alcolica (20% dei casi), l’epatite B (15-17% dei casi), più frequenti negli uomini. A fronte di un calo dei trapianti per HCV, stiamo assistendo a un aumento dei trapianti per cirrosi metabolica (steatoepatite non alcolica, NASH), sindrome che in Italia colpisce una percentuale del 5% dei pazienti che arrivano al trapianto, ma che negli USA e in Asia è molto diffusa, a causa della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità che colpiscono fino al 50% della popolazione. Altre indicazioni al trapianto sono riconducibili a malattie più rare, che possono avere anche una base genetica, come la colangite biliare primitiva nelle donne, e la colangite sclerosante primitiva nei giovani uomini. Complessivamente, le donne trapiantate sono il 30%, contro il 70% degli uomini».
Cosa accade dopo il trapianto e qual è l’impatto sulla qualità di vita?
«I pazienti devono assumere farmaci immunosoppressori per tutta la vita, indispensabili per controllare il rigetto d’organo. Anche se le terapie innovative sono efficaci e meglio tollerate rispetto al passato, in alcuni pazienti è possibile che si verifichino complicanze renali, diabete, aumento di peso, ipertensione arteriosa, e un maggior rischio di infezioni batteriche, in particolare nei primi tre mesi post-trapianto, come conseguenza della diminuzione delle difese immunitarie. Queste complicanze possono avere ricadute sulla qualità di vita del paziente, che sarà comunque migliore rispetto alla fase che precede il trapianto, per quanto riguarda il ritorno a scuola o al lavoro, l’attività ludica, l’attività sportiva, l’attività sessuale, la gravidanza, per le donne che hanno un progetto di maternità. In questi casi consigliamo di aspettare almeno un paio di anni dal trapianto. In realtà, le donne trapiantate in età fertile sono solo il 20% rispetto all’80% in età più avanzata. Va comunque sottolineato che la qualità di vita varia secondo la tipologia di pazienti trapiantati: quella dell’adolescente che vuole reintegrarsi nel contesto scolastico sarà diversa da quella della persona adulta che vuole tornare ad essere professionalmente attiva, o della donna over-65 che vuole tornare a occuparsi della gestione della famiglia. La qualità di vita è un concetto che va di pari passo con l’aderenza, ovvero la corretta somministrazione della terapia immunosoppressiva, la stretta osservanza delle prescrizioni mediche, degli esami e delle visite, ma anche delle indicazioni rispetto allo stile di vita: smettere di fumare, non consumare alcool e droghe, evitare l’aumento di peso, fare attività fisica, seguire un’alimentazione sana e bilanciata».
Qual è l’aderenza alla terapia nei pazienti trapiantati di fegato?
«Il tasso di non aderenza alla terapia immunosoppressiva varia dal 40 al 60%: si tratta di un problema ancora aperto che può compromettere il risultato del trapianto e può portare al rigetto cronico. La mancata aderenza è più alta nei pazienti molto giovani e nelle persone anziane: queste ultime sono più inclini a dimenticanze nell’assunzione del farmaco. Gli adolescenti sono i soggetti più a rischio: il trapianto si inserisce in un periodo di per sé complesso in termini di accettazione, a livello relazionale con la famiglia, i coetanei, il contesto scolastico. Ad esempio, i “vecchi” farmaci potevano causare come effetto collaterale l’aumento della peluria, inducendo molte ragazze a sospendere la terapia. Stessa cosa accadeva per il cortisone, associato a un aumento della ritenzione dei liquidi. I nuovi farmaci hanno in parte limitato questi inconvenienti e hanno minori effetti collaterali. Per questo è fondamentale che l’équipe del Centro trapianti – il medico, lo psicologo, l’infermiere – colga questi aspetti e identifichi i pazienti più a rischio prima del trapianto. Una volta definiti questi fattori, che dipendono dalla persona, dall’ambiente familiare, dall’abitudine ad assumere altri farmaci, è necessario intervenire programmando azioni mirate sul singolo paziente già prima del trapianto; riscontrare la non aderenza due-quattro-cinque mesi dopo il trapianto potrebbe essere troppo tardi».
di Paola Trombetta
“Aderisco Perché”: storie di persone trapiantate che raccomandano di seguire le terapie
«Anna è solo una bambina e la mamma le è sempre accanto, in attesa di un donatore che possa salvarle la vita. Luigi invece dona un rene a suo fratello Riccardo che può così continuare a coltivare la sua grande passione: il ballo. Un dirigente invece non si prende cura della sua salute dopo un trapianto ed è costretto a rimettersi in lista di attesa». Sono alcune delle storie raccolte nella Graphic Novel, “Aderisco Perchè” per l’editore ITComics, realizzata con il patrocinio delle Associazioni ANED, ACTI, AITF, EpaC, AIDO, le società scientifiche SIN e SITO, il contributo non condizionato di Astellas e il coordinamento di Argon Healthcare: cinque storie reali scritte e interpretate da cinque artisti del fumetto per sensibilizzare le persone che hanno avuto un trapianto a seguire con attenzione il regime terapeutico.
Grazie al trapianto, in Italia circa 50mila persone hanno intrapreso un nuovo viaggio nella quotidianità della vita, degli affetti familiari, del lavoro, degli studi, dello sport, del tempo libero o delle vacanze. Nella prefazione del volume le Associazioni, che hanno dato il loro contributo e patrocinio al progetto, hanno voluto scrivere un messaggio congiunto: “Tu hai ricevuto un organo che ti ha ridato la vita, fallo ballare, fallo studiare, portalo in vacanza, ma ovunque vai ricordati di trattarlo bene: segui le istruzioni ricevute e aderisci alla terapia!” In Europa si contano quasi 200 mila decessi a causa della scarsa aderenza alle terapie, come riportato dalla Società Italiana Nefrologia. Ogni anno, la non aderenza alla terapia ha un costo di 1.25 miliardi di euro per l’assistenza sanitaria, le prestazioni ospedaliere e ambulatoriali, il pronto soccorso. Senza contare che non seguire le terapie ha un impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti e sulla loro produttività, con ulteriori costi che ricadono sulla società. P.T.