Il 27 gennaio diverse manifestazioni in tutta Italia ricordano il Giorno della Memoria, la data simbolo della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz nel 1945 da parte delle truppe dell’Armata Rossa. Una giornata dedicata al ricordo dell’orrore della Shoah, lo sterminio di sei milioni di ebrei, da parte della follia nazista, avvenuta nell’indifferenza dei popoli e dei governi di altre nazioni europee. Sul valore della memoria, anche calandola in una dimensione individuale ed esistenziale, abbiamo parlato con Silvia Vegetti Finzi, una delle più autorevoli psicoanaliste italiane, sempre attenta al tema del femminile e della crescita psicologica dei bambini, a cui ha dedicato tanti saggi, già docente di Psicologia dinamica all’Università di Pavia. Qualche anno fa ha scritto Una bambina senza stella (Rizzoli), in cui racconta la sua storia di bambina cresciuta negli anni tragici del fascismo e delle leggi razziali, figlia di un padre ebreo costretto, per evitare la cattura e la deportazione in campo di concentramento, a rifugiarsi in Etiopia assieme alla moglie e al figlio maggiore. La piccola Silvia viene affidata a una balia e poi agli zii a Villimpenta, un paesino tra le risaie mantovane, per salvarla da un destino di bambina con la stella (marchio di identificazione degli ebrei dopo la promulgazione delle leggi razziali).
Perché secondo lei la Shoah è l’evento più terribile nella storia dell’umanità?
«Con la Shoah è accaduto qualcosa che non era mai avvenuto prima. Mai nella storia dell’umanità si è progettato, con freddezza e determinazione, lo sterminio di milioni di ebrei come se fossero spazzatura da smaltire o insetti nocivi da distruggere. Mai si è pianificata l’eliminazione di un popolo studiando e cercando i gas più “efficaci”, progettando i ghetti nelle città occupate, costruendo i lager, predisponendo la complessa rete dei trasporti. Un orrore fatto sistema. In un’indifferenza quasi totale della comunità internazionale. Questa la differenza con le altre carneficine che la storia ci ricorda. Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente di come la barbarie può essere correlata a ciò che chiamiamo modernità e progresso, all’interno di un mondo occidentale liberale, industrializzato, tecnologicamente avanzato. È un collasso che riguarda la storia di tutti noi, non solo lo sterminio degli ebrei. Nella Shoah, nelle camere a gas, sono stati distrutti i corpi degli ebrei, ma è soprattutto il concetto stesso di dignità umana, di sacralità della vita, che ci costringe a ripensare ai nostri valori e ai nostri modelli di convivenza sociale».
“L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa”, ricorda la senatrice a vita, Liliana Segre, sopravvissuta ai lager (venne liberata il primo maggio 1945 al campo di Malchow, il padre e i nonni paterni furono invece sterminati)…
«La Shoah è diventata tema centrale solo recentemente, dalla fine degli anni Settanta, attraverso ricerche storiche, con cui si è scandagliato ogni dettaglio. Benché ricordare sia doloroso, soprattutto per chi è stato protagonista di una storia tanto atroce, è necessario tener desto nella memoria il ricordo di quei terribili momenti, affinché gli uomini di domani non debbano di nuovo commettere gli stessi orribili crimini. Questa fu sicuramente una delle pagine più vergognose della storia e guardare in faccia questo capitolo assurdo e orrendo dell’era contemporanea è, e sarà sempre, faticoso, ma necessario. Qui sta il senso del Giorno della Memoria: un invito a conoscere e ricordare. Uno sprone a capire, ad analizzare il passato, guardando quel che succede attorno a noi. Fare memoria vuol dire non far passare nell’indifferenza i tanti rigurgiti xenofobi e razzisti, intolleranze e sopraffazioni, drammaticamente presenti ai nostri giorni, in molti Paesi, Italia compresa, che si vanno consumando sotto i nostri occhi, spesso distratti».
La parola “memoria” è stata spesso abusata, strumentalizzata. Come evitare la retorica delle grandi celebrazioni?
«Invece che sulle “celebrazioni”, i discorsi e le frasi di circostanza che abbiamo sentito tantissime volte, bisogna insistere sulla dimensione del racconto. Basti pensare al valore della testimonianza di Luciana Segre, dopo un lungo pesante silenzio, la cui voce è in grado di guidarci attraverso un universo di emozioni, affetti, sentimenti che i libri di storia difficilmente ci rimandano».
Per anni, per decenni, non si è parlato molto di certi argomenti…
«Troppo presto abbiamo accantonato quel dramma storico nel timore di confrontarci con emozioni negative, quali il senso di colpa, la paura, la vergogna e con il sentimento più diffuso, e proprio per questo più nocivo: l’indifferenza. Anche in Italia è prevalsa una voglia di dimenticare che ha prematuramente cancellato le vicende della dittatura fascista, delle persecuzioni razziali, della guerra e del conflitto civile. D’altra parte premevano altre urgenze: la pacificazione nazionale, la ricostruzione, la modernizzazione del Paese. C’è stato anche il silenzio doloroso dei sopravvissuti. Perché parlare degli orrori subiti e visti, era più devastante che tacere. Siamo di fronte a un ricordare così tragico da sfiorare l’abisso. In modo del tutto comprensibile, i sopravvissuti non riuscivano a parlare pubblicamente della propria esperienza nei campi di concentramento. E hanno preferito ricacciare il ricordo nel profondo, per liberarsene. Ma poi qualcuno era davvero disposto ad ascoltare?».
Nel suo libro autobiografico racconta che scoprì piano piano, quasi per caso, sistemando i tasselli di un mosaico sepolto sotto la sabbia dell’oblio, tante cose che erano accadute nella sua famiglia, di cui nessuno le aveva parlato…
«Trovai, nascosti nell’armadio sotto la pila delle lenzuola, terribili fotografie dei campi di sterminio nazisti. Montagne di corpi umani nudi, scheletrici, accatastati alla rinfusa come in procinto di essere riversati in una discarica. Non so cosa compresi di quella perturbante scoperta. Tuttavia intuii che quelle immagini si riferivano al papà e alla sorella di mio padre, Ida di diciannove anni, che erano stati deportati a Auschwitz, dove morirono poco dopo. Tuttavia, la rivelazione rimase lettera morta perché non chiesi nulla: il regime del silenzio ammutolisce la domanda dei bambini. Quando mio padre fu rimpatriato, nell’inverno del ‘45, si limitò a raccontare amene storielle, stile Barone di Mùnchausen, sulla caccia ai leoni e a raccomandarci, come facevano gli inglesi, di lavarci i denti tre volte al giorno. Probabilmente è stato un atteggiamento di amore e di protezione a sigillare le labbra di mio padre, a tacitarne le narrazioni».
Che ne sarà della memoria, quando i testimoni diretti saranno scomparsi?
«Quando scomparirà l’ultimo testimone sarà un momento dolorosissimo ma, tutti scompariremo, è la natura e bisogna accettarla. Ricordiamo molte cose del passato, fa parte della vita e questo diventerà parte della vita futura e memoria di quelli che verranno dopo di noi, purché si tramandi e si insegni alle nuove generazioni cosa è avvenuto. E il luogo migliore per farlo è la scuola. Anche la testimonianza ha una sua eredità: ci saranno i testimoni della testimonianza. Ed è importante che anche dei luoghi resti memoria, perché ci aiutino a essere consapevoli della nostra storia. Luoghi che stimolano ricordi e provocano emozioni, che si rinnovano nella memoria collettiva. Lapidi, musei, monumenti, cippi e cimiteri raccontano i fatti storici che sono avvenuti. Le pietre di inciampo, ideate dall’artista tedesco Günter Demnig, ad esempio, mandano un monito silenzioso: sampietrini, piccoli blocchi quadrati ricoperti d’ottone, incastonati nel selciato in corrispondenza delle abitazioni dei deportati nei lager che non hanno fatto ritorno, sui quali sono incisi il nome della persona, la data e il luogo di nascita e, in alcuni casi, anche la data di morte. Fino ad oggi ne sono state posate in Europa circa 55 mila».
Dal piano storico collettivo, la stessa domanda può essere calata nella dimensione individuale. Meglio ricordare o dimenticare esperienze traumatiche, che possono condizionare la nostra vita?
«Vale per i popoli quello che vale per gli individui: non vi è identità senza memoria. Per questo ricordare è una necessita. La nostra biografia tuttavia incontra continuamente cancellazioni, rimozioni, interruzioni, deviazioni. Dimenticare è però difficile, molto, soprattutto se l’esperienza è stata traumatica. Diversi studi hanno dimostrato che l’oblio intenzionale richiede livelli di attività cerebrale più alti di quelli necessari a ricordare. Di fronte a un eccesso di rimozione, come suggerisce Freud, occorre recuperare ciò che è stato, non solo per conoscerlo, ma per riviverlo. Dare parole al dolore aiuta a comprenderlo, accettarlo e trasformarlo in consapevolezza ed empatia. Se questo “lavoro” non accade, il rimosso ritorna come un rigurgito a perturbare la persona. Non serve far finta che un fatto non sia mai accaduto o cercare di occupare la mente con altro, perché nulla di quanto è stato vissuto va perduto e dopo essere stato rimosso nell’inconscio, permane in un fondo d’angoscia».
Parliamo della Bambina senza stella. Oggi quale fra i tanti episodi ricorda della sua infanzia?
«Sono nata nell’ottobre del 1938, proprio nei giorni in cui venivano promulgate le “Leggi razziali”, ignara degli eventi che stavano squassando il mondo. Sono cresciuta aspettando che il papà, la mamma e il fratellino tornassero a prendermi appena fosse finita la guerra. Non credo di essermi mai chiesta perché la mia famiglia fosse così diversa dalle altre. Ricordo di quel periodo, il piacere di sognare e di giocare. Tutto precipitò all’improvviso nel momento (estate ‘43) in cui mia madre tornò a riprendermi, e con mio fratello, che aveva allora otto anni, sfollammo a Manerbio, un paese del bresciano che ci accolse con diffidenza e ostilità. Il fatto più traumatico non è stato il precoce abbandono e l’affido agli anziani parenti contadini, ma l’ostilità che avvertivo a Manerbio. Non sapevo di essere figlia di padre ebreo. Andavo a scuola dalle suore, a messa e al catechismo, credevo di essere come le mie coetanee e subivo invece un ostracismo incomprensibile che mi inquietava. Senza sapere perché, ho trascorso l’infanzia sotto il segno di una minaccia incombente, sconosciuta, che ancora oggi mi turba».
di Cristina Tirinzoni