82 bambini e adolescenti milanesi tra 6 e 14 anni, intervistati tra maggio e giugno, al termine del lockdown, ancora in modalità scolastica da remoto. Sono i protagonisti di un sondaggio condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri d Milano, finalizzato a conoscere il vissuto emozionale e del vivere quotidiano, ma anche le difficoltà rispetto alle nuove norme di apprendimento e di distacco sociale da pandemia dei più giovani. Interessanti i dati emersi: il 33% dichiara di aver fatto molta fatica ad adattarsi alla scuola on line, percepita in misura maggiore dai bambini delle elementari; il 44% ha cambiato abitudini dietetiche, mangiando cibi di minore qualità ricorrendo spesso al junk food e maggiori quantità di alimenti; il 33% infine ha dichiarato di avere avuto disturbi del sonno, risvegli notturni con un desiderio di dormire nel lettone, quest’ultimo un comportamento regressivo sintomo di un disagio emotivo, di una insicurezza recondita. Manifestati anche da un aumento di stati di ansia (85%), maggiori nei giovani che stavano davanti al pc oltre le due ore della didattica scolastica, e di sbalzi di umore associabili per lo più ai cambiamenti forzati nello stile di vita. Ma non solo: i giovanissimi denunciano anche paure del rischio di infezione, più per i genitori (la mamme in particolare) e i nonni, che per se stessi, un altro indicatore del timore di perdere figure referenziali importanti. Inoltre sono state molte le difficoltà espresse, riguardo il nuovo aspetto educativo, sia dagli alunni che dai grandi: C., uscita dalla terza media, confessa che l’approccio con la didattica virtuale, dapprima complesso, ha subito via via un graduale adattamento, mentre i suoi genitori – entrambi medici – si sono trovati a dover fronteggiare esigenze professionali e familiari, inventandosi delle soluzioni innovative. Come la “smart tata”, la babysitter in “modalità on line” che seguiva i ragazzi quando i genitori erano fuori in via telematica. Mentre altri bambini hanno risentito soprattutto della mancata socialità: l’assenza degli amici, dei compagni di scuola e del confronto con i pari, dello sport, rifugiandosi “dentro” lo smartphone per ristabilire con loro un contatto. A farne le spese anche l’insegnamento, perché seppure l’esperienza a distanza sia stata positiva, consentendo di portare avanti i programmi scolastici, gli insegnati dichiarano che il vero modo per apprendere è la presenza. Ciò che tutti auspicano è infatti la ripersa di una scuola “normale” il 14 settembre. Con qualche dubbio, però, sulla gestione soprattutto di spazi e disponibilità di materiale e arredi.
Cosa ha insegnato l’esperienza Coronavirus? «Sono meritevoli alcune riflessioni: – precisa Silvio Garattini, farmacologo e ricercatore al Mario Negri – prima fra tutte il “peso” che la pandemia ha avuto sulle classi meno abbienti e culturalmente meno pronte ad affrontare i limiti e la convivenza per lunghi periodi. Per i giovani, invece, si è verificata una sorta di “battuta di arresto” perché il cervello, in crescita, ha bisogno di continui stimoli che sono venuti a mancare, evidenziando molte carenze del modo di intendere e fare scuola. È emerso lo scarso valore dato all’istruzione: la scuola è stata tra le prime ‘attività’ a chiudere e tra le ultime ad aprire, mentre la cultura è la base per la formazione del futuro, e una metodologia scolastica poco al passo coi tempi penalizza la metodica scientifica che non entra a far parte dei programmi scolastici, fatta eccezione per matematica, biologia e poco altro. Mentre dalla scienza parte e si sviluppa la conoscenza scientifica, che avrebbe potuto aiutare anche a gestire meglio la pandemia». Uno sprone per gli insegnati affinché la scienza sia introdotta fin dalle classi elementari, per poter meglio affrontare le nuove esigenze ed emergenze della società. Che sono spesso dimenticate, sottovalutate o trascurate.
Francesca Morelli