La via italiana per il trattamento dell’infarto

In Italia, ogni anno, 80 mila persone sono colpite da infarto, di cui 52 mila vengono sottoposte a stent coronarico. Al recente Congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) è stato presentato lo Studio DUBIUS, frutto della ricerca italiana, che ridefinisce nuovi protocolli di trattamento della forma più frequente d’infarto, quella in cui l’arteria non è completamente ostruita. È stato dimostrato che praticando la coronarografia in modo tempestivo, entro 24 ore dall’evento e con approccio radiale (dal polso), incide sui risultati più di quanto faccia la terapia farmacologica antiaggregante per la rivascolarizzazione. «I risultati dello Studio DUBIUS contribuiscono a mettere la parola fine all’interrogativo che da sempre è motivo di dibattito nel mondo della cardiologia sull’opportunità di somministrare antiaggreganti prima o dopo la conferma della diagnosi con la coronarografia», puntualizza il professor Giuseppe Tarantini, presidente del GISE (Società Italiana di Cardiologia Interventistica) e principale autore dello studio. «Si tratta di un’indagine destinata a rivoluzionare gli standard di trattamento e prognosi, rispetto a tutti i precedenti studi internazionali e potrà avere importanti ricadute, considerato che ogni anno nel mondo si registrano 15 milioni di infarti e 7 milioni di morti per malattie delle coronarie. Lo studio conferma anche che l’Italia ha raggiunto un livello di ricerca avanzato, con risultati che riducono gli eventi avversi a meno della metà rispetto al resto del mondo: 2 su 100 trattati contro i 7 nel mondo. Questo studio inoltre conferma che il farmaco, senza strategia medica, non basta, a volte non serve e ogni tanto è dannoso: la terapia vincente rimane il medico e non il blister».
Lo studio avviato nel 2015, è stato valutato e autorizzato da AIFA, patrocinato e finanziato dal GISE e condotto sotto la guida di Giuseppe Tarantini (Direttore Cardiologia Interventistica dell’Università di Padova) e di Giuseppe Musumeci (Direttore Cardiologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino) in 30 centri d’eccellenza, distribuiti in tutta Italia, su più di 2.500 pazienti. Lo studio DUBIUS è stato subito pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology, la più importante rivista mondiale di cardiologia. «Ci eravamo prefissi di individuare la strategia di trattamento farmacologico più efficace e sicura nelle fasi che precedono la coronarografia, l’angioplastica e il bypass aorto-coronarico. Era necessario valutare in modo rigoroso le implicazioni cliniche dell’approccio farmacologico più comunemente utilizzato, il cosiddetto pretrattamento che viene applicato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto diagnostico di infarto. Il DUBIUS lo ha confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione di un antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia».

«L’attuale pratica clinica italiana, con coronarografia effettuata entro 24 ore dall’infarto ed eseguita da accesso radiale, ha garantito eccellenti risultati in entrambi i gruppi di studio», conferma il co-autore dello studio Giuseppe Musumeci, direttore della Cardiologia all’Ospedale Mauriziano di Torino, «che hanno reso superfluo un ulteriore confronto tra le due strategie di trattamento farmacologico antiaggregante, nessuna delle quali può essere raccomandata come approccio di routine. Con i risultati dello studio DUBIUS potremo evitare a circa 80 mila pazienti all’anno la somministrazione a tappeto di potenti antiaggreganti prima della coronarografia, con una riduzione di potenziali effetti collaterali e notevoli ricadute sull’appropriatezza delle cure. Pensiamo a chi, in corso di infarto, deve sottoporsi a bypass coronarico (circa 6%) o a quelli che dopo la coronarografia non hanno confermata la diagnosi d’infarto, ben il 15%.  Al momento i tempi di attesa nel caso di bypass, per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante, sono di 5-7 giorni. Giornate che il paziente trascorre in ospedale, aumentando rischi di complicanze e costi di gestione. Tempi che, se il paziente non è stato pretrattato, possono essere quasi azzerati. Nell’era Covid-19 un risultato ancora più prezioso per la pratica clinica».

di Paola Trombetta

Smartwatch salva cuore

Lo smartwatch può diventare anche un salva cuore: non permette solo di scoprire le aritmie cardiache, ma può essere per il medico anche lo strumento d’emergenza per una diagnosi tempestiva di infarto. Togliendolo dal polso e mettendolo in nove posizioni sul torace può riconoscere l’attacco cardiaco con una sensibilità che arriva al 94%.  Lo dimostra per la prima volta al mondo una sperimentazione tutta italiana i cui dati, appena pubblicati sulla prestigiosa rivista JAMA Cardiology, sono stati presentati in contemporanea nel corso del congresso dell’European Society of Cardiology 2020 (ESC): stando ai risultati, questo “orologio intelligente” potrebbe ridurre drasticamente i tempi di diagnosi dell’infarto e quindi migliorare la prognosi dei pazienti, che dipende moltissimo dal tempo che intercorre fra l’inizio dei sintomi e la terapia effettuata con l’angioplastica coronarica.

«Un ECG tempestivo è fondamentale per la diagnosi di infarto, ma non sempre è prontamente disponibile in caso di sintomi sospetti; gli smartwatch, invece, sono al polso di un numero sempre più elevato di persone», spiega Carmen Spaccarotella della Divisione di Cardiologia e Centro di Ricerche in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, coordinatrice della ricerca. «Gli ECG standard prevedono l’applicazione di elettrodi che misurano l’attività elettrica del cuore in punti diversi sul torace; gli smartwatch come l’Apple Watch, che abbiamo utilizzato nella nostra sperimentazione, sono programmati per effettuare una sola derivazione elettrocardiografica, consentendo perciò di esplorare l’attività elettrica di una parte soltanto del cuore. Il nostro studio ha dimostrato che è possibile spostare l’orologio in diverse posizioni del corpo, effettuando la misurazione a nove derivazioni come quella dell’ECG standard».

Per l’indagine sono stati analizzati 100 soggetti, di cui l’80% con sintomi di infarto e il 20% asintomatici di controllo; per tutti sono state effettuate le registrazioni dell’ECG con l’Apple Watch e un esame elettrocardiografico standard. Non esiste ancora un programma che consenta la diagnosi automatica con l’ECG effettuato con l’Apple Watch: ad oggi è indispensabile che i dati vengano valutati da un medico. In futuro tuttavia è probabile che siano resi disponibili software in grado di fare automaticamente la diagnosi di infarto, come già accade per la fibrillazione atriale. La possibilità di individuare un infarto in corso con rapidità e semplicità grazie all’uso di un semplice smartphone può essere di grande aiuto in determinate situazioni nel ridurre le conseguenze negative di un attacco cardiaco. Negli ultimi anni proprio grazie all’angioplastica primaria, la mortalità per infarto si è ridotta del 50%, a patto che la procedura venga effettuata entro 90-120 minuti dalla diagnosi con ECG. Gli smartwatch potrebbero perciò essere d’aiuto per accorciare ulteriormente i tempi di intervento e salvare così la vita a un maggior numero di pazienti.  P.T.

Un nuovo pacemaker senza fili

Un pacemaker senza fili, simile a una piccolissima capsula, che viene impiantato direttamente nel cuore senza alcuna incisione. Si tratta di un device rivoluzionario nella storia della stimolazione cardiaca, che, introdotto attraverso l’arteria femorale, giunge fino al cuore e grazie ai suoi minuscoli denti rimane agganciato alla parete dell’organo. E stato impiantato per la prima volta a giugno dall’equipe di Elettrofisiologia guidata dal dottor Giovanni Morani, composta dal dottor Luca Tomasi, la dottoressa Bruna Bolzan e la dottoressa Elena Franchi dell’UOC di Cardiologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. E in questi giorni l’intervento è stato ripetuto a Roma, dall’equipe dell’Unità di Aritmologia del Fatebenefratelli-Isola Tiberina, composta da Stefano Bianchi (Direttore UOC di Cardiologia), Pietro Rossi (Responsabile UOS di Aritmologia) e dai medici Filippo Cauti e Luigi Iaia.

Particolarmente indicato nei soggetti con pause patologiche del ritmo cardiaco o con blocchi atrio-ventricolari che necessitano di stimolazione ventricolare guidata dall’atrio, questo pacemaker offre una soluzione molto importante per quei pazienti che non possono impiantare un dispositivo standard, poiché hanno avuto in passato episodi di infezione. Rispetto al pacemaker tradizionale, che normalmente viene posizionato in una tasca sottocutanea sotto la clavicola con gli elettrocateteri (tubicini in silicone) che dalle vene del torace arrivano al cuore, l’innovativo device viene inserito attraverso un temporaneo catetere venoso dalla gamba e impiantato direttamente nel muscolo cardiaco al quale viene “ancorato”. In questo modo viene azzerato il rischio di infezione che negli anni può colpire la tasca sottocutanea a causa della presenza degli elettro-cateteri. Inoltre, il dolore post-operatorio è praticamente nullo, poiché non è stato effettuato alcun taglio chirurgico e il paziente, 48 ore dopo l’intervento, potrà essere dimesso. A differenza dell’impianto di un pacemaker standard, il paziente non ha limitazioni post-operatorie e può subito riprendere la mobilità degli arti superiori, con conseguente riduzione dei tempi di ospedalizzazione.  P.T.

 

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