Ha lottato tanto Elisa Borghi, fin dall’inizio della pandemia, per rendere operativo il laboratorio universitario dove lavora, presso l’Ospedale San Paolo di Milano, per la diagnosi di SARS-CoV-2. Con altre ricercatrici del Dipartimento di Scienze della Salute, si è battuta con tenacia per aiutare gli altri laboratori nel periodo drammatico di inizio pandemia. E ha messo a disposizione tutta la sua competenza in materia di virus, con il suo curriculum di tutto rispetto: laurea in Biologia all’Università di Pavia, dottorato in Medicina Molecolare in ambito virologico, professore associato di Microbiologia clinica all’Università di Milano. Da ormai un anno si dedica a tempo pieno ai test per la diagnosi di Covid-19. Purtroppo le lungaggini burocratiche e una politica non sempre tempestiva, hanno frenato la buona volontà del suo gruppo di lavoro che è diventato operativo solo a fine maggio 2020, così come altri laboratori universitari che avevano dato subito la loro disponibilità, ma sono rimasti chiusi per diversi mesi a causa del lockdown.
«È stato un periodo davvero difficile», commenta la professoressa Borghi. «Abbiamo atteso più di tre mesi per poter essere accreditati ad effettuare test diagnostici per il SARS-CoV-2 e dare supporto in questo modo ai laboratori degli ospedali che erano saturi di richieste. Avevamo tutte le attrezzature e il personale necessario: mancava solo l’autorizzazione ministeriale che, a causa di infiniti cavilli burocratici, è arrivata a fine maggio. Durante il lockdown, in quanto laboratorio universitario, abbiamo dovuto addirittura chiudere i battenti. Potete immaginare il nostro rammarico per non aver potuto aiutare i pochi laboratori ospedalieri che non riuscivano ad evadere le migliaia di richieste di test molecolari, nei primi mesi della pandemia. Oggi il nostro laboratorio esegue un centinaio di test molecolari al giorno, in supporto agli ospedali. In più facciamo sorveglianza sul territorio, con test nelle comunità protette e nelle scuole».
E proprio dalla scuola è venuta all’équipe della professoressa Borghi l’idea di utilizzare un test salivare, molto meno invasivo, ma efficace come quello molecolare col tampone naso-faringeo. «Il coordinamento del progetto Lollipop, ovvero l’utilizzo della saliva come campione per la diagnosi di infezione da SARS-CoV2, è stato fatto dal professor Gian Vincenzo Zuccotti, preside della Facoltà di Medicina e primario di Pediatria all’Ospedale Buzzi di Milano», puntualizza la professoressa Borghi. «Lavorando con i bambini, si era reso conto della difficoltà di eseguire periodicamente il tampone naso-faringeo nei piccoli. E noi ricercatrici, che siamo anche mamme, abbiamo subito colto l’importanza di trovare un metodo diagnostico meno invasivo e di più facile esecuzione. L’estate scorsa era uscita una pubblicazione della Yale University sui tamponi salivari che sono stati approvati con procedura emergenziale dal Center for Disease americano e vengono già utilizzati nello stato di New York, e da poco tempo anche in Francia. Per la validazione del test, sono stati eseguiti contemporaneamente tamponi salivari e molecolari su più di 200 soggetti. Abbiamo documentato i risultati in uno studio scientifico pubblicato sulla rivista “Pharmacological Research”, che supporta la validità della saliva come campione alternativo all’invasivo tampone naso-faringeo. A novembre, il nostro team si è attivato per sperimentare ulteriormente questi esami: abbiamo testato più di 200 bambini in due scuole elementari di Milano e li abbiamo monitorati per sei settimane consecutive. Il risultato? Abbiamo individuato alcuni bambini asintomatici, ma positivi al virus, che sono stati subito isolati e messi in quarantena. Avendo identificato precocemente l’infezione, nessun altro bambino è stato infettato e neppure le famiglie. Il test salivare, più comodo e meno invasivo, soprattutto per categorie come bambini o anziani, è molto sensibile al virus nelle prime fasi di infezione. Questo consentirebbe di individuare in fase molto precoce l’infezione e poter così isolare il soggetto, prima che diffonda il contagio. Confidiamo che questo metodo venga presto validato dalle autorità competenti e si possa utilizzare su larga scala, in maniera capillare e rendendolo di pubblico utilizzo: sarebbe un modo semplice e pratico per una diagnosi precoce che potrebbe sicuramente contribuire a limitare l’infezione da SARS-CoV-2».
di Paola Trombetta