Più viene offerto un tipo di cibo, più viene apprezzato, anche quello meno gradito. È una “regola”, assicura Margherita Caroli, pediatra ed esperta di nutrizione per la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), nel corso del Congresso “Napule è” (Napoli, 23-24 luglio). Ma naturalmente, per arrivare all’obiettivo serve pazienza, da parte dei genitori, e tempo per i piccoli. «Un cibo poco amato – spiega la pediatra – va somministrato almeno 10 volte, a distanza ravvicinata, senza imposizioni: nessun bimbo morirà se andrà a letto quasi a digiuno, anzi tutti i bambini sani alla fine mangiano quando capiscono che non ci sono alternative». Occorre valutare anche il momento giusto in cui far provare il nuovo alimento: «Siamo geneticamente programmati per apprezzare maggiormente i cibi grassi e dolci – aggiunge la dottoressa. Dunque occorre aver pazienza e stimolare il bambino ad apprezzare anche i sapori più amari o acidi o quelli delle verdure, imparando a proporli nelle fasi iniziali del languorino di stomaco, in cui l’ipoglicemia stimola le papille gustative e le rende più predisposte a nuovi sapori».
Attenzione però a non farsi menare per il naso dai piccoli: se un cibo viene mangiato in mensa dell’asilo o della scuola e rifiutato a casa, forse i genitori sono un po’ “deboli” e accondiscendenti e i bambini fanno leva su questo fattore per ottenere quello che vogliono. «Mamma e papà, invece, devono essere un muro di protezione e di sostegno per i bambini – raccomanda Caroli – e non cedere al primo “no”».
Queste indicazioni sono contenute in un documento di indirizzo sull’ alimentazione pediatrica, presentato nel corso del Congresso e redatto secondo le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e del Ministero della Salute in cui si illustrano diversi fattori che possono influenzare la corretta nutrizione. Come ad esempio le diseguaglianze sociali: «Donne sole, con un lavoro poco qualificato, una situazione economica precaria e un livello socio-culturale più basso, allattano meno, danno più latte in formula e meno latte materno – continua la pediatra – e tendono a svezzare prima i figli, rispetto a donne più acculturate e con una situazione economica più stabile. Le prime sono donne e famiglie a cui prestare maggiore attenzione e sono da proteggere più di altre». L’allattamento è un fattore determinante anche per lo svezzamento che va differenziato in caso di nutrizione al seno o con formula: «Nei bambini allattati al seno, occorre iniziare con le proteine: 10 grammi al giorno di carne o di pesce. Mentre per i bambini allattati con formula, questa supplementazione non è necessaria, avendo già questa tipologia di latte un carico proteico e di ferro superiore a quello materno. Piuttosto è necessario proporre loro alimenti dai sapori diversi, cambiando molto, partendo da frutta e verdura in quanto sono abituati a un unico sapore, mentre quelli allattati al seno sentono sapori diversi in base a quello che ha mangiato la mamma. In questi ultimi, quindi, lo svezzamento potrebbe essere più facile». Infine una considerazione merita il baby food: secondo una legge europea le aziende possono indicare i 4 mesi come età minima a partire dalla quale i loro alimenti sono adeguati: in realtà l’OMS li raccomanda dai 6 mesi, prima dei quali la somministrazione di alimenti solidi può essere inutile o dannosa. A tal proposito la Commissione europea ha chiesto all’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) di emettere un parere sull’età in cui si può iniziare a somministrare cibi solidi, con l’obiettivo di arrivare a variare questa indicazione sulle confezioni di baby food, obbligando le aziende a scrivere “dal sesto mese compiuto”. E sembra che il parere dell’ente sia stato positivo, non essendovi indicazione utile per anticipare lo svezzamento dei piccoli.
Francesca Morelli