Disturbi addominali, dolore pelvico, bisogno frequente di urinare, inappetenza. Sono sintomi “generici” che possono però nascondere una grossa problematica: il tumore all’ovaio. Riconoscere un carcinoma ovarico in fase iniziale non è semplice: la prevenzione e l’informazione giocano un ruolo fondamentale. Si tratta dell’ottava neoplasia più comune nelle donne: in Italia si calcola siano 5.200 ogni anno le nuove diagnosi, la maggioranza delle quali in donne con più di 40 anni. L’avvento negli ultimi anni dei PARP inibitori ha cambiato l’approccio terapeutico del carcinoma ovarico e di conseguenza le prospettive e la qualità di vita delle pazienti. Una piccola rivoluzione che oggi fa registrare un ulteriore passo in avanti. Niraparib, un nuovo PARP inibitore, è stato approvato in questi giorni anche in Italia per il trattamento di mantenimento in prima linea in monoterapia per le pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato (Stadio III e IV) alle tube di Falloppio o peritoneale primario, in risposta completa o parziale, dopo chemioterapia con sali di platino. La novità fondamentale è che si tratta del primo farmaco di questa classe ad essere indicato come trattamento di mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, indipendentemente dalla presenza di mutazione BRCA per cui questi farmaci erano solitamente somministrati.
Con il via libera dell’autorità regolatoria, a poter beneficiare di niraparib non saranno quindi solo le pazienti con carcinoma ovarico BRCA mutato, che sono circa 1 su 4 tra quelle in stadio avanzato, ma anche le pazienti prive di mutazione BRCA (circa 3 su 4). Inoltre, nel caso delle pazienti BRCA mutate, la disponibilità di niraparib offre all’oncologo l’opportunità di scegliere il PARP inibitore più appropriato sulla base delle caratteristiche della paziente. A sostegno della nuova indicazione di niraparib ci sono i risultati dello studio
PRIMA, che ha dimostrato un beneficio in termini di tempo libero da recidiva, clinicamente e statisticamente significativo, sia nelle pazienti BRCA mutate (60%), che in quelle senza mutazione di BRCA (57%). Nella popolazione complessiva niraparib ha ridotto il rischio di progressione o morte del 38% rispetto a placebo. Questi risultati sono molto importanti in quanto l’80% delle pazienti dopo la chemioterapia va incontro a recidiva. «Il vantaggio aggiuntivo per le pazienti consiste nella monosomministrazione orale a domicilio, che ben si concilia con il ritorno a una vita il più possibile vicina alla normalità al termine della chemioterapia», spiega la professoressa Domenica Lorusso, associato di Ginecologia e ostetricia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e responsabile della ricerca clinica alla Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS. «Oggi non è ammissibile che una paziente con carcinoma ovarico di nuova diagnosi non riceva alcuna terapia di mantenimento al termine della chemioterapia».
L’indicazione degli esperti e delle stesse linee guida è di effettuare il test BRCA già al momento della diagnosi, perché il risultato del test ha sia un’implicazione terapeutica che un valore prognostico: le pazienti con mutazione BRCA hanno una prognosi migliore e rispondono meglio in generale a specifici trattamenti. Effettuare il test ha inoltre un valore preventivo, visto che le donne con la mutazione presentano un maggiore rischio di sviluppare anche altri tumori. Lo sottolinea con forza la professoressa Lorusso: «Anche in presenza di PARP inibitori come niraparib, che possono essere prescritti indipendentemente dalla mutazione di BRCA perché hanno dimostrato efficacia in tutte le pazienti, il test per il BRCA deve essere effettuato in tutte le donne con carcinoma ovarico già alla diagnosi di malattia».
Una volta individuata la mutazione, l’indagine si può estendere alle altre donne della famiglia e possono essere messe in atto strategie di prevenzione o di riduzione del rischio, come per esempio l’asportazione delle tube e delle ovaie, se la donna ha completato la vita fertile.
Cosa sono in realtà i geni BRCA1 e BRCA2 e perché è importante riconoscerli? Entrambi contengono le informazioni per la sintesi di proteine implicate nei meccanismi di riparazione del DNA, processo fondamentale per la vita delle cellule. Quando subiscono delle mutazioni, ne risentono anche i processi cellulari in cui sono coinvolti, portando a un’aumentata probabilità di sviluppare tumori. Si calcola che in Italia ci siano circa 150 mila persone con mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2: questi soggetti sono più portati a sviluppare carcinomi alla mammella, all’ovaio, al pancreas e alla prostata rispetto alla popolazione generale. Per quanto riguarda il carcinoma ovarico, le donne che presentano mutazioni al gene BRCA1 hanno fino al 40% di probabilità di ammalarsi, mentre se è interessato il gene BRCA2 la percentuale scende al 12%.
Il test BRCA può essere effettuato direttamente su cellule del tessuto tumorale (test somatico) oppure su sangue, tramite un semplice prelievo (test germinale). Il “somatico” rivela la presenza di mutazioni ereditarie (germinali) e non (somatiche), insorte solo nella massa tumorale. Per questo, in caso di risultato positivo, il test viene ripetuto anche su sangue per verificare la natura della mutazione individuata (germinale o somatica). Il germinale riesce a individuare le mutazioni di BRCA ereditarie (germinali) presenti in tutte le cellule dell’organismo. Se una donna, affetta da carcinoma dell’ovaio o della mammella, è risultata positiva al test BRCA germinale è possibile che anche altri membri della famiglia siano portatori della mutazione, proprio perché la mutazione ha carattere ereditario. Per questo è importante effettuare questi test, anche a scopo preventivo, per tutelare gli altri membri della famiglia.
Per tutte le informazioni: https://www.womencare.it/tumoreovarico/index.html
di Paola Trombetta