Nuccia Invernizzi: “La mia Africa si chiama Zambia”

«Sono andata per la prima volta nello Zambia negli anni ’80, sposata da poco con mio marito che lavorava all’ENI e ha vissuto per diversi anni in quel Paese per coordinare un progetto di estrazione dei metalli per l’industria italiana, in particolare rame e zinco, di cui è ricca la zona al confine con il Congo». Così Nuccia Invernizzi, milanese d’origine, ma residente a Mendrisio, dove ha creato una Fondazione (nucciainvernizzi.foundation) per aiutare in particolare le donne e i bambini dello Zambia, racconta il suo approccio con la realtà africana, di cui poi, si è letteralmente “innamorata”.

Qual è stato il tuo primo approccio con l’Africa?
«All’inizio, mi sono fermata a Lusaka, capitale dello Zambia, per diversi mesi e poi ritornavo in Italia e facevo avanti e indietro. Era un Paese che mi aveva affascinato fin da subito. Questa nazione non ha sbocchi sul mare, non ha diamanti, né oro, né petrolio. Ma è Africa, con i suoi tramonti, il fiume Zambesi, le cascate Vittoria, gli spazi enormi e gli elefanti. È un Paese povero con dodici milioni di abitanti in un’area grande come Svizzera, Francia e Belgio messi insieme. Almeno, non c’è mai stata guerra, dalla liberazione del 1965 ad ora, anche se 70 tribù diverse la occupano. Cinque o sei lingue locali sono abbastanza diffuse, ma per comunicare tra loro gli indigeni parlano inglese. Mi sono sempre chiesta come mai, nonostante i milioni di dollari di aiuti alimentari mandati in questi ultimi anni, l’Africa sia ancora così povera, inaccettabilmente povera! Un grido di dolore si eleva da molte voci, ma tutte sembrano rimanere inascoltate…».

Come è nata l’idea di aiutare questo Paese africano?
«È stata la morte improvvisa di mio marito, che non aveva ancora 60 anni, per un tragico incidente in auto nel 2000, quando si trovava per lavoro in Argentina, che mi ha fatto ritornare alla mente l’Africa, dove avevo vissuto felice i primi anni di matrimonio. Per contrastare questa morte, ho voluto provare a “dare la vita”. E ho scelto di tornare in Africa e portare acqua, che in quelle zone rappresenta la vita, facendo progettare la costruzione di una serie di pozzi. Ho trovato sul posto una Onlus, Zamber Society, a cui mi sono appoggiata e ho iniziato a far costruire pozzi. Da lì ho cominciato ad andare nello Zambia tre volte l’anno: il mal d’Africa mi ha contagiato subito».

Quali iniziative hai contribuito a promuovere?
«Considerando la situazione di miseria e di analfabetismo della popolazione, ho iniziato con la costruzione di una piccola scuola, a Nord della capitale Lusaka, che oggi, dopo 23 anni, educa 830 bambini: ora è sostenuta dal Governo, copre tutta la scuola dell’obbligo fino a 18 anni. In questi 22 anni di vita in Africa, ho contribuito ad aprire un orfanotrofio, grazie al sostegno di un gruppo di volontari che finanziano la Fondazione e tramite una Onlus non governativa locale, “Zambian Helpers Society”, di cui faccio parte. Un amico italiano che lavora nello Zambia, ci ha donato una grande casa, circondata da un bel giardino. Era il posto ideale per il “mio” orfanotrofio. Avevo preso coscienza che lì c’erano tante bambine che subivano molestie, perché erano orfane e venivano prese in carico magari dai cugini o dai vicini di casa che abusavano di loro. L’ultima bambina che abbiamo accolto è rimasta vittima del femminicidio della madre da parte del padre: l’abbiamo accolta praticamente denutrita, l’abbiamo accudita e ora sta bene, circondata dall’attenzione di un gruppo di suore cattoliche zambiane, le Figlie del Redentore (Daughters of Redentor). All’interno di queste mura, è stata istituita anche una scuola apposta per loro».

La tua Fondazione ha dato un grosso contributo allo sviluppo sociale di questo Paese. Come sono i rapporti con le istituzioni locali?
«Abbiamo avuto diversi riconoscimenti governativi, anche perché il nuovo Presidente dello Zambia è un uomo molto intelligente e sensibile a tutti i progetti educativi. Ha garantito la scuola gratuita per tutti e negli ultimi tre mesi ha assunto addirittura 35 mila insegnanti. E ora sta lavorando in ambito sanitario. Purtroppo ci sono ancora pochi medici: quelli che ci sono vengono dal Congo o dal Sud Africa. E stanno cercando gli infermieri. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo un consultorio e un ambulatorio per la distribuzione di farmaci contro l’AIDS: vengono da noi circa 1200 persone tutte le settimane. Ci appoggiamo a un’associazione che fornisce questi farmaci. Un’altra iniziativa che stiamo seguendo è nel settore agricolo, con la distribuzione di sementi per la coltivazione della terra: non basta infatti portare cibo, ma è importante mettere la gente in condizioni di produrlo. E così, in collaborazione con il governo, sono state avviate coltivazioni di mais, per produrre una specie di polenta bianca di cui questa popolazione si nutre, ma anche di verdure come pomodori, cavoli e di frutta. E poi stiamo avviando un allevamento di polli per poter mangiare carne e uova».

Qual è, a parte la miseria, il più grosso problema dell’Africa?
«A mio parere è quello di mantenere la continuità nei lavori che vengono avviati: cerchiamo di fare le cose con la gente del posto, di spronarli e affiancarli in molti lavori. In questi vent’anni d’impegno con la Fondazione, ho notato che le donne sono molto più recettive degli uomini. Durante il Covid non sono andata in Africa per quasi due anni, ma ho pensato a un progetto dedicato proprio a loro. Nello Zambia le donne sono intraprendenti, intelligenti, attive: non badano a fatiche, sono formidabili. Le vedi per strada o al lavoro, sempre con i loro bambini in braccio che non piangono mai perché si sentono protetti e al sicuro. Appoggiandomi a una suora zambese, Mother Emelda, particolarmente geniale, siamo partite col Progetto Donna: creare una scuola dove insegnare le regole igienico-sanitarie e nutrizionali. E poi trovare un modo per rendere le donne indipendenti, per potersi autogestire, attraverso un microcredito che consenta loro di acquistare ad esempio i pulcini che poi le donne allevano a casa o le sementi per lavorare e far produrre la terra. Abbiamo anche creato un laboratorio di sartoria e produzione di manufatti, come borse, porta-chiavi, accessori vari, con le magnifiche stoffe colorate della cultura locale».

In questi vent’anni di attività “africana”, qual è il ricordo più bello che porti nel cuore?
«Quando arrivo nello Zambia, che è la mia Africa, la luce, gli spazi, i tramonti mi danno tanta felicità. Da vent’anni, quando lascio l’Africa, la lascio col corpo, ma il mio cuore, la mia mente rimangono là. La gente è buona, affettuosa, riconoscente e umile. Occupandomi per professione di allestire fiere, ho girato quasi tutto il mondo. Ma da nessuna parte ho trovato persone così felici, pur nella miseria, come nello Zambia. Se pensi al Sud America, all’India, c’è angoscia, c’è violenza: qui invece c’è gioia, desiderio di fare, manca solo il coordinamento di qualcuno che segua la gente e l’aiuti a concretizzare le loro iniziative. Lo Zambia è uno stato giovane: ha avuto l’indipendenza nel 1965. Ma la gente non è abituata a programmare, non ha ricevuto un’educazione adeguata per poterlo fare. È una nazione povera, con poche materie prime, ma ci sono infinite distese di terreno. Lusaka è circondata da un’immensa estensione di campi, di parchi meravigliosi: si trova a 1500 metri di altitudine, per cui il clima è sempre mite, mai umido. È forse ancora l’unico luogo in Africa dove gli animali vivono liberi: non ci sono recinti e ti trovi gli elefanti che si muovono in branco a pochi passi da dove arrivi con la jeep. Forse si potrebbe anche provare a promuovere il turismo: oggi esiste solo un piccolo volo che da Lusaka arriva in questo parco naturale dove ci sono una decina di lodge e gli animali vivono liberi. È la libertà una prerogativa di questa bellissima terra d’Africa: libertà nella natura, nello spirito, nel pensiero di questa gente fiera e gioiosa che ti riempie di felicità! E quando sono con loro anch’io ne rimango contagiata».

di Paola Trombetta

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