All’incirca uno ogni 60: sono i bambini celiaci, in sensibile crescita rispetto ad epoche precedenti. Alla base del fenomeno, secondo il recente studio internazionale TEDDY (Environmental Determinants of Diabetes in the Young), ci sarebbero un pool di fattori: ambientali, come la regionalità o il luogo di residenza, ma anche componenti genetiche e epigenetici, in parte confermate anche da una ricerca della Società Italiana Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (SIGENP) che ipotizza in più larga misura l’interazione della genetica e dell’alimentazione. Gli esperti italiani esprimono “preoccupazione” e lo fanno in occasione della Giornata dedicata alla celiachia (16 maggio). Il numero dei casi registrati sul territorio, tra i nostri piccoli, è tra i più alti al mondo, pari al 60%, secondo l’indagine ampia, attualmente la più grande al mondo, multicentrica, condotta dalla Società su 9 mila alunni delle scuole elementari a Verona, Milano, Roma, Padova, Salerno, Ancona, Bari e Reggio Calabria. Per arrestare il fenomeno, la prima azione da compiere è aumentare le diagnosi, ovvero intercettare tutti i piccoli che presentano manifestazioni potenzialmente sospette per celiachia, al fine di prevenire le conseguenze a lungo termine, anche gravi. Fra queste osteoporosi, infertilità, rari casi di tumore, evitabili con una diagnosi tempestiva. I bambini sono stati così tutti sottoposti a uno screening di primo livello, cioè un semplice pungi dito, per verificare, su una goccia di sangue, la presenza di anticorpi che indicano la predisposizione genetica per malattia e in caso di positività inviati a eseguire un prelievo di sangue per verificare più approfonditamente la diagnosi di celiachia. «Malgrado il crescente interesse verso questa condizione nell’ambito medico generale, ancora rimangono tanti casi di celiachia non diagnosticati», spiega il professor Claudio Romano, Presidente SIGENP e Direttore dell’Unità Operativa di Gastroenterologia Pediatrica e Fibrosi Cistica dell’Università di Messina. «La ricerca dei casi sfuggiti alla diagnosi rappresenta pertanto un obiettivo primario dal punto di vista sanitario. Così come l’educazione “terapeutica” alimentare ai bambini e alle famiglie: la cura della celiachia resta infatti la dieta, con esclusione rigorosa di glutine contenuto in alcuni cereali, tra cui il frumento, per tutta la vita».
Oltre alla grande diffusione della celiachia in Italia, lo studio della SIGENP ha messo in evidenza anche un altro importante problema: la sottodiagnosi. Solo il 40% dei bambini ottiene “conferma” di celiachia su basi cliniche, un dato preoccupante a detta degli esperti. «I medici prestano molta attenzione al minimo sospetto di celiachia», aggiunge il professor Carlo Catassi, ideatore dello studio e Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università Politecnica di Ancona. «Spesso però i genitori non portano i figli dal pediatra perché non rilevano sintomi particolari. I “campanelli d’allarme” e di attenzione magari ci sono: tra i primi aspetti va considerata la familiarità per celiachia, la presenza di altre patologie autoimmuni, che spesso si manifestano nello stesso soggetto o in ambito familiare. Inoltre, possono essere sintomi di celiachia la diarrea o la stitichezza, i dolori addominali, l’anemia da carenza di ferro, il vomito, la stanchezza cronica e diverse altre sintomatologie. Ricordiamo poi che la patologia si può manifestare a ogni età, anche nell’adulto, sebbene insorga più di frequente nel bambino dopo il divezzamento, cioè quando inizia a introdurre glutine nell’alimentazione, con il consumo di farine, pane, pasta e biscotti. La fascia d’età più colpita va dai 2 ai 10 anni, con le prime manifestazioni dopo un possibile periodo di latenza di alcuni mesi o anni». Ma l’età non è la sola variabile anagrafica: infatti lo studio mette in luce anche una caratterizzazione “di genere”. Ad essere più colpite sarebbero le femmine rispetto ai maschi, in rapporto di due casi a uno. Un dato che ha una risposta scientifica: come quasi tutte le malattie autoimmuni, anche la celiachia, è prevalente nel sesso femminile e come nello studio americano, si rileva una maggiore diffusione geografica nel sud Italia, ipotizzando un più largo consumo di alimenti contenenti glutine, come pasta, pane, pizza. Il dato conclusivo è che l’Italia resta tra i paesi in cui la prevalenza di celiachia è maggiore, insieme a Svezia, Finlandia, India e Nord Africa a differenza di Giappone o Filippine in cui è assolutamente rara e a spiegare l’andamento è ancora una volta l’alimentazione: quella orientale è infatti basata sul riso, ricco di amido, non di glutine. «Tuttavia la situazione sta cambiando», commenta Catassi. «Popolazioni che difficilmente si nutrivano con derivati del frumento, oggi iniziano a consumare panini con hamburger e pizze ed anche in queste etnie e aree territoriali stanno aumentando i casi di celiachia».
Sulle cause del problema c’è pieno accordo: si ritiene che la celiachia dipenda per il 40% dalla predisposizione genetica, per un altro 40% dall’alimentazione e per il restante 20% da fattori ancora non noti. «Anche in caso di predisposizione genetica, in assenza di un consumo di glutine, la persona non svilupperà la malattia. Alla luce di questi risultati bisogna trovare strategie per tenere sotto controllo il fenomeno, ad esempio tramite uno screening nazionale della celiachia – conclude Catassi – che può dare una risposta concreta e efficace alla sottodiagnosi, che resta ancora un problema enorme».
di Francesca Morelli