«Mamma Giuditta ha cominciato 11 anni fa, all’età di 71 anni, con i primi sintomi. Era diventata molto nervosa, aggressiva e si rendeva conto che non riusciva più a fare le cose che desiderava. All’epoca lavoravo all’estero come ingegnere per una multinazionale. Per fortuna a fianco di mia mamma c’è sempre stato mio papà, una presenza costante da 57 anni e di cui si fida, anche se a volte non ricorda chi è e addirittura per un po’ di tempo non lo voleva nel letto. Sono ormai trascorsi 11 anni e mia mamma ha oggi 82 anni. Riesce ancora a camminare, ma non è più presente a se stessa e fa cose a volte assurde che cerchiamo di sdrammatizzare. Ma altre volte creano problemi. L’altro giorno ad esempio, stava mangiando un gelato e ha cominciato a pasticciarlo: l’ho ripresa e mi ha ricambiato con un graffio, che mi ha lasciato un bel segno sul viso! E pensare che il giorno successivo avevo un importante incontro di lavoro… Un segnale comunque che dovrò stare più attenta a rivolgermi a lei con troppa fermezza. Faccio il possibile per condurre una vita normale, continuando il mio lavoro, ma ovviamente le trasferte all’estero sono diventate impossibili. Anche se c’è una donna che l’assiste quando vado in ufficio, la sera cerco di stare a casa. A volte, invito le amiche che, dopo i primi momenti di disagio, si adattano alla situazione. E prendiamo sul ridere certi comportamenti assurdi di mia mamma… È fondamentale superare lo stigma che questa malattia provoca ancora nelle persone. Ed evitare di isolare il paziente, cercando di movimentare le giornate con iniziative di vario genere. Per questo sarebbe importante se ci fossero persone disposte a venire a domicilio ad “intrattenere”, magari per qualche ora, chi soffre di questa malattia che stravolge la vita, soprattutto quella dei familiari: in questo modo verrebbero in parte alleviati dal costante e snervante compito di dover essere sempre al loro fianco, anche se ricevono insulti o offese, superando lo sconforto di non riconoscere più la persona che si amava e con la quale si condividevano momenti di gioia e serenità. Oggi il buio prevale nella mente di una donna che è sempre stata attiva come mia mamma, di professione insegnante. Non ci sono ricordi, anche se la mamma percepisce che le vogliamo bene; ma spesso nemmeno mi riconosce. Per questo, come membro dell’Associazione Alzheimer Milano, insisto sulla necessità di supportare soprattutto i familiari dei malati: sono loro che devono essere incoraggiati a gestire le tante reazioni imprevedibili che, inconsciamente, il malato compie a danno di chi è gli più vicino. Spesso i familiari sono lasciati soli ad affrontare una situazione che crea angoscia e timore, con la difficoltà di assistere una persona che continui ad amare, ma che, a volte, ha reazioni che possono ferire. Ma i familiari sono consapevoli dell’impossibilità di ricevere gratificazioni da una persona che ha ormai perso la memoria».
Il racconto di Mariapaola Mattolini, ingegnere di Milano, che parlerà giovedì sera alle 20 al Cinema Anteo (Piazza XXV Aprile), in occasione della presentazione di un docufilm per la Giornata Mondiale Alzheimer (vedi new Cultura), è comune a molte figlie di genitori con questa patologia che si rivolgono alle Associazioni per avere un supporto, un consiglio su come comportarsi.
«I familiari sono le “vittime nascoste” di questa malattia», fa notare Katia Pinto, presidente della Federazione Alzheimer Italia (www.alzheimer.it). «Sono infatti le persone che devono prendersi carico per 24 ore del familiare, se non trovano un aiuto dall’esterno. E sono comunque i soggetti che soffrono di più, perché emotivamente coinvolti in una situazione in cui il familiare malato ha spesso comportamenti di rifiuto e di offesa verso di loro. Per questo come Federazione cerchiamo di organizzare incontri per formare e informare i care-givers. In alcune città, tra cui Modena e Bari, sono stati organizzati i “Cogs Club”, ovvero centri diurni di assistenza dove il personale si dedica a questi malati con terapie socializzanti e di stimolazione cognitiva. Ma quando la persona non è più in grado di uscire di casa, diventa allora indispensabile la presenza di un assistente domiciliare. In alcuni Paesi, come Inghilterra e Germania, queste figure professionali sono previste e si alternano nella casa dei malati di Alzheimer, in supporto ai familiari. Da noi purtroppo, non sono previste e le famiglie devono provvedere a proprie spese a trovare personale part time o a tempo pieno per l’assistenza del parente malato. Come Federazione ci stiamo muovendo per potenziare e facilitare l’assistenza a domicilio, cercando così di ridurre i ricoveri nelle RSA che sono ormai al limite degli accessi. Per questo speriamo che venga rifinanziato dal Governo il “Piano Demenze”, approvato nel 2021 e in scadenza a ottobre. Chiediamo la possibilità di ricevere finanziamenti che le Regioni dovranno gestire per migliorare l’assistenza a questi malati, che oggi sono oltre un milione e 480 mila, un numero che sarà triplicato, raggiungendo i due milioni 300 mila nel 2050. Per questo insistiamo molto sulla prevenzione. Cogliamo l’occasione della Giornata mondiale del 21 settembre per divulgare quelli che sono i fattori di rischio di questa malattia, identificati dall’Alzheimer Disease International (ADI) in 12 punti: inattività fisica, fumo, alcol, traumi cranici, isolamento, obesità, ipertensione, diabete, depressione, disturbi dell’udito, scarsa istruzione, inquinamento. Riducendo o, meglio ancora, eliminando questi fattori, si abbassa il rischio di ammalarsi di Alzheimer».
«Uno studio pubblicato su Lancet conferma che eliminando alcuni di questi fattori, soprattutto ipertensione, diabete, obesità, ipercolesterolemia, sedentarietà, si può arrivare anche a ridurre il rischio di malattia del 40%», puntualizza il dottor Antonio Guaita, direttore della Fondazione Golgi Cenci che si occupa di ricerca sulla Malattia di Alzheimer. «In particolare si è visto che il grasso viscerale incide molto sulla malattia, come fattore pro-infiammatorio. Riducendo questo fattore di rischio, con attività fisica e dieta mediterranea, si abbassa anche il pericolo di ammalarsi di Alzheimer. E’ stata dimostrata una familiarità per la malattia, soprattutto da parte femminile: la figlia di una mamma con Alzheimer ha un rischio maggiore di ammalarsi. E la malattia è prevalente tra le donne, anche perché la vita media nel sesso femminile si è allungata rispetto all’uomo. Fin dalla scoperta di questa malattia, da parte del dottor Aloysius Alzheimer nel lontano 1906, la proteina amiloide è considerata una causa della malattia. Ma non è certamente l’unica, anche perché diversi studi, più di 17, che sperimentavano farmaci in grado di ridurre questa proteina, non hanno avuto poi riscontro nella clinica. Finora due farmaci biologici (aducanumab e lecanemab) sono stati approvati, in via sperimentale, dall’FDA (Ente americano per la validazione di farmaci). Le terapie attualmente usate nella pratica clinica agiscono su uno specifico neurotrasmettitore (acetilcolina), bloccando l’enzima che lo degrada e migliorando così le funzioni cognitive del malato di Alzheimer. I tre farmaci più utilizzati, con questo specifico meccanismo d’azione, sono donepezil, rivastigmina, galantamina: riducono i sintomi, ma non bloccano la progressione. Ci vorranno ancora anni di ricerca sulle molteplici cause di questa malattia, prima di trovare terapie veramente efficaci per curarla».
Paola Trombetta