«Ho sempre sofferto di endometriosi, che ha richiesto anche alcuni interventi chirurgici. Ma la consapevolezza di avere una malattia grave l’ho avuta a 30 anni quando sono stata ricoverata e operata con urgenza per un tumore all’ovaio e mi hanno asportato anche le tube. In un primo tempo mi dissero che non avrei più potuto avere figli. E questa notizia ha provocato in me un grandissimo sconforto, anche perché mi è stata comunicata con molta freddezza. Come del resto la diagnosi del tumore. Ho vissuto in prima persona come sia importante l’approccio alla persona malata, il dialogo, la sensibilità di comunicare una notizia che ti sconvolge la vita. “Puliamo tutto, così non ci pensiamo più”, mi aveva detto il chirurgo, senza nemmeno farmi riflettere sul significato di queste parole. Solo dopo ho capito, a mie spese, che l’intervento di asportazione delle tube avrebbe potuto mettere a rischio la possibilità di avere un figlio. Per fortuna, grazie alla procreazione medicalmente assistita, sono poi riuscita a realizzare il mio desiderio di maternità. E oggi ho un figlio di 23 anni. Dopo la mia esperienza, ritengo fondamentale che le donne con questo tipo di tumore vengano adeguatamente informate e abbiano la possibilità di condividere i propri dubbi e sofferenze con altre donne nelle stesse condizioni. È importante che le donne sappiano che esistono centri di riferimento per questo tumore, con professionisti preparati, in grado di aiutarle non solo dal punto di vista della cura, ma anche ad affrontare problematiche relative alla gestione della propria sessualità, della possibilità di poter avere figli, proponendo la conservazione degli ovociti. I medici devono comunicare con le donne, rassicurandole e indicando i passi da compiere per risolvere i problemi. Per questo, oltre all’oncologo, ritengo fondamentale anche la consulenza di uno psiconcologo e di un sessuologo.
Per aiutare le donne a superare queste difficoltà, ho accolto con grande piacere la proposta di diventare testimonial della Campagna “Cambiamo rotta”, promossa da ACTO Italia, con la pubblicazione del Libro bianco sul carcinoma ovarico: nove donne raccontano il proprio vissuto di questo tumore e una ventina specialisti e rappresentanti di associazioni danno loro consigli su come affrontarlo».
Con la sua preziosa testimonianza Nancy Brilli ha partecipato alla presentazione del libro bianco “Cambiamo rotta”, consultabile sul sito www.acto-italia.it, al Ministero della Salute, in occasione della Giornata dei Tumori Ginecologici (20 settembre), nell’ambito del progetto sul tumore ovarico, promosso da ACTO Italia (Alleanza Contro il Tumore Ovarico), sponsorizzato da GSK e Roche, con il patrocinio di AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica), MaNGO (Mario Negri Gynecologic Oncology group), MITO (Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer), “Salute: un bene da difendere un diritto da promuovere”, SIC (Società Italiana di Cancerologia) e l’adesione delle Associazioni Loto e Mai più sole. Il progetto comprende il manifesto ACTO 2.0, che raccoglie i bisogni e i diritti delle donne con tumore ovarico, e una ricerca condotta su oltre 100 pazienti per valutare la conoscenza della malattia. Da questa ricerca emerge che il 70% delle donne con tumore ovarico conosce già la malattia prima della diagnosi: un netto ribaltamento della percentuale rispetto a 10 anni fa, dove solo il 30% ne aveva sentito parlare. Meno di tre pazienti su dieci, però, scelgono di curarsi in un centro specializzato, ignorando quanto tale decisione possa fare la differenza nel percorso di cura. Inoltre il 70% delle donne scopre il tumore quando è già in fase avanzata a causa di sintomi aspecifici e per la mancanza di strumenti di screening efficaci.
«È necessario e urgente promuovere un nuovo cambio di rotta nella gestione del tumore ovarico», afferma la Presidente di ACTO Italia, Nicoletta Cerana. «Bisogna mantenere l’approccio che ci ha portato fin qui, ma contemporaneamente aprire nuovi percorsi, per rinnovare e migliorare questo approccio. Aumentare l’informazione sulla malattia e sui centri specializzati per promuovere scelte di cura più consapevoli; sostenere la ricerca per la diagnosi precoce che ancora oggi resta una chimera; aprire ai test genomici per rendere possibili le cure personalizzate; cominciare a parlare di sessualità e oncologia, un ambito di bisogni del tutto dimenticato che sta emergendo sempre più forte; favorire una maggiore tutela sociale ed economica delle pazienti. Grazie alle terapie sempre più efficaci e personalizzate, si vive di più anche con il tumore ovarico: di conseguenza è diventato necessario prendersi cura della persona, oltre che curare la malattia. Sono i punti salienti del Manifesto ACTO 2.0 che sintetizza le sette azioni prioritarie per migliorare la presa in carico globale delle donne con tumore ovarico ed è stato redatto a partire dall’analisi dei loro bisogni e dalle indicazioni dei maggiori clinici ed esperti».
«Negli ultimi 5 anni è accaduto quello che definisco uno tsunami nel trattamento del carcinoma ovarico: per la prima volta siamo riusciti ad aumentare la percentuale di pazienti potenzialmente guarite», conferma la professoressa Nicoletta Colombo, Università Milano-Bicocca, Direttore Programma Ginecologia, Istituto Europeo Oncologia. «Abbiamo scoperto il primo “bersaglio” del tumore ovarico che può essere colpito con terapie mirate: si chiama “Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD)” e i farmaci sono i PARP-inibitori. Questo deficit è presente nei tumori di tutte le pazienti con mutazioni BRCA e di un altro 25% di pazienti senza mutazioni di questi geni: quindi nella metà dei casi totali. Bisogna perciò garantire due tipi di test: quelli genetici, soprattutto a scopo di prevenzione delle persone sane, e quelli genomici sul tessuto tumorale, come il test HRD, per personalizzare le cure nelle donne malate».
La ricerca di ACTO Italia mostra che meno della metà delle pazienti (45%) accede alla profilazione genomica. C’è inoltre ancora un 12% di pazienti a cui non è stato proposto il test genetico per le mutazioni BRCA. Ad oggi, però, solo la ricerca delle mutazioni BRCA (test genetico) è nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), mentre la ricerca di HRD (profilazione genomica) non è ancora rimborsata dal SSN.
«Il rischio è che non tutte le pazienti possano accedere ai test in modo uniforme sul territorio e, di conseguenza, non abbiano le stesse opportunità di cura», sottolinea Umberto Malapelle, Chair del Laboratorio di Patologia Molecolare Predittiva, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università degli Studi Federico II di Napoli. «La ricerca procede molto velocemente e, a mio avviso, i LEA dovrebbero prevedere la profilazione genomica estesa, lasciando agli esperti la decisione di quale tipo di strategia utilizzare in relazione al quesito clinico».
I test rappresentano quindi un requisito essenziale per garantire a ogni paziente una strategia terapeutica personalizzata. «I risultati di questa personalizzazione riguardano soprattutto la terapia medica e di mantenimento», aggiunge Domenica Lorusso, Professore associato di Ostetricia e Ginecologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e Responsabile UOC programmazione ricerca clinica della Fondazione Policlinico Gemelli. «Si traducono in un’opportunità concreta di attingere a nuove classi di farmaci mirati e a bersaglio molecolare (PARP inibitori, immunoterapie, anticorpi farmaco coniugati) che richiedono una gestione e una presa in carico di un team multidisciplinare. Da qui l’esigenza di identificare i centri oncologici specializzati dove queste pazienti possono essere curate».
Le donne però non ne sono consapevoli: come evidenziano i dati dell’indagine ACTO Italia, infatti, solo il 27% delle pazienti dichiara di aver scelto il proprio centro in base alla specializzazione nel trattamento del carcinoma ovarico. «Questo è un aspetto centrale soprattutto quando parliamo del trattamento chirurgico, che oggi rappresenta la terapia d’elezione in tutte le fasi della malattia», afferma Giovanni Scambia, Direttore UOC Ginecologia Oncologica – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma. «Sia nello stadio iniziale, dove l’intervento e la chemioterapia permettono di raggiungere tassi di guarigione anche dell’80-85%; sia negli stadi avanzati, dove l’intervento da solo riesce a eradicare la malattia in circa il 60% delle pazienti. Solo i centri specializzati possono infatti garantire anche la professionalità dell’équipe chirurgica».
«Essere curate per il tumore ovarico al meglio delle nostre attuali conoscenze e con le tecnologie più all’avanguardia non può essere una questione di fortuna. E non può e non deve dipendere da dove si vive». È quanto sottolinea Sandro Pignata, Direttore UOC Oncologia Uro-Ginecologica, Istituto Nazionale Tumore IRCSS Fondazione Pascale di Napoli, Coordinatore Scientifico della Rete Oncologica Campana e Presidente del Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer (MITO). «Ci sono le Linee Guida e c’è uno strumento indispensabile che serve ad applicarle: il PDTA, cioè il Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale del tumore ovarico. «E poiché il nostro Sistema Sanitario è regionale, ogni regione si dovrebbe dotare del PDTA del tumore dell’ovaio».
È fondamentale infatti agire per garantire standard di presa in carico omogenei sul territorio nazionale. «Desidero esprimere il mio apprezzamento e la mia gratitudine ad ACTO Italia – afferma il ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha curato la prefazione del Libro Bianco – per la realizzazione di questo testo particolarmente significativo e per l’impegno costante a fianco delle donne colpite da tumore ovarico e da tutti i tumori ginecologici. Prevenzione, diagnosi precoce e una presa in carico tempestiva e appropriata sono le linee strategiche delineate dal Piano Oncologico Nazionale 2023-2027, nonché le leve fondamentali su cui puntare con rinnovato impegno, anche cogliendo a pieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie».
Un’attenzione particolare degli interlocutori coinvolti nella stesura del Libro Bianco è rivolta alla qualità di vita e all’oncologia territoriale. «In questo caso il compito della politica – sostiene l’onorevole Vanessa Cattoi, coordinatrice dell’Intergruppo parlamentare “Insieme per un impegno contro il cancro” – è quello di ascoltare le esigenze di pazienti e professionisti, stabilire con loro delle priorità e costruire una sanità sempre più vicina alle reali esigenze di ogni persona. Questo è anche il fine del disegno di Legge, presentato al Senato, sulla partecipazione delle Associazioni dei malati e delle organizzazioni di cittadini nell’ambito della tutela della salute all’interno dei principali tavoli decisionali».
Come sottolinea Annamaria Mancuso, Presidente di Salute Donna ODV e Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, «quello che cerchiamo di fare con il nostro movimento, che ad oggi raggruppa 45 associazioni, è far sì che i servizi viaggino alla stessa velocità con cui corre la scienza. Vogliamo essere assieme ai decisori politici protagonisti attivi di un confronto che mira a migliorare la vita di chi già deve lottare contro il cancro».
di Paola Trombetta