Il Premio Nobel per la Pace 2023 è stato assegnato dall’Accademia di Oslo all’iraniana Narges Mohammadi “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e di libertà”. Un Nobel assegnato anche per “il tremendo costo personale” (i figli gemelli diciassettenni, Ali e Kian vivono in esilio a Parigi con il loro padre, giornalista, Taghi Rahmani, anche lui incarcerato più volte; l’ultima volta che hanno visto la madre ne avevano otto). La notizia del Nobel arriva mentre lei è ancora detenuta (dal 2021) nel famigerato carcere di Evin, nella provincia di Teheran, un luogo terrificante, noto come il “buco nero” della Repubblica islamica dell’Iran, dove deve scontare una pena di 10 anni e 9 mesi e 70 frustate, in un regime di detenzione molto stretto e disumano: secondo i report di Amnesty International le sono negate persino le più elementari cure mediche, è stata torturata e non le è stato concesso nessun medicinale malgrado soffra di una malattia polmonare. “Più ci imprigionano e più diventiamo forti”, scriveva da dietro le sbarre.
Cinquantadue anni, nativa di Zanjan, in Iran, Narges Mohammadi, una laurea in fisica, tra le migliaia di attiviste in carcere, è la figura più nota e anche uno dei punti di riferimento nella protesta delle donne che in Iran lottano contro una dittatura che limita le loro libertà. Il Comitato del Nobel ha ricordato, in particolare, il suo ruolo nella mobilitazione di protesta seguita alla morte nel settembre 2022 di Mahsa Jina Amini. Dalla prigione ha espresso supporto per i dimostranti e ha organizzato azioni di solidarietà insieme con altri detenuti. Le autorità penitenziarie hanno risposto imponendole restrizioni ancora più severe, vietandole persino di ricevere telefonate o visitatori; lei però è comunque riuscita a far diffondere un articolo che è stato pubblicato dal New York Times nel primo anniversario dell’uccisione di Mahsa. Alla notizia del Nobel, Mohammadi è riuscita a far trapelare un suo messaggio dal carcere: “Non smetterò mai di lottare per la democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Il Premio mi renderà ancora più determinata, fiduciosa ed entusiasta in questo percorso. Al fianco delle madri dell’Iran, continuerò a battermi contro la discriminazione di genere sistematica fino alla liberazione delle donne. Spero che questo riconoscimento renda gli iraniani che protestano ancora più forti e organizzati”.
Quando aveva nove anni, la madre pregò Narges di non occuparsi mai di politica. Ma Narges la guardava riempire sempre un cestino rosso di plastica con la frutta da portare ai parenti dissidenti in carcere, e poi la osservava mentre stava ogni sera alla stessa ora davanti al televisore per scoprire quali fossero i nomi dei “giustiziati del giorno” tra i prigionieri politici, per sapere se ci fosse qualche amico oppure un cugino o uno zio. Narges, guardando la madre, si era riempita di rabbia, non di paura, e aveva deciso che avrebbe fatto l’opposto di ciò che le aveva consigliato, anzi implorato, di fare. Fu condannata per la prima volta a un anno di carcere nel 1998 per le sue posizioni contro il governo. Da quel momento Mohammadi è ripetutamente entrata e uscita di prigione, senza tregua: quando per la prima volta fu arrestata era vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran, fondato dall’avvocata pacifista Shirin ʿEbādi, Nobel per la Pace nel 2003. Da allora è stata più volte rilasciata e incarcerata.
Alla difficile esperienza dell’isolamento carcerario, Mohammadi ha dedicato anche un libro: White Torture, una testimonianza scioccante e sconvolgente su quanto accade oggi in Iran e sulla vita nelle carceri. Le attiviste iraniane sono detenute in una cella completamente bianca per periodi di tempo molto lunghi, allo scopo di portarle a una totale deprivazione sensoriale, con l’isolamento prolungato, le minacce ai membri della propria famiglia, le lunghe ore di interrogatori. Quest’anno Mohammadi ha vinto anche il PEN/Barbey Freedom to Write Award 2023, conferito ogni anno a uno scrittore incarcerato per onorare la sua libertà d’espressione. Il premio Nobel fa riaccendere i riflettori sulle donne iraniane vittime di un’oppressione sempre più aggressiva, con il ritorno della famigerata polizia morale iraniana, al fine di imporre il velo obbligatorio. La morte di Mahsa Zhina Amini nel settembre 2022, dopo essere stata arrestata e picchiata dalle pattuglie della polizia morale perché le spuntava una ciocca di capelli dall’hijab, aveva scatenato una rivolta popolare senza precedenti in tutto il Paese, con le donne e le ragazze in prima linea a sfidare decenni di discriminazione e violenza. Ma non c’è stata nessuna apertura da parte del regime, nonostante le accese proteste che si sono susseguite per mesi in tutto il Paese. Al grido di “Donne, Vita, Libertà” (Zan, Zendeghi, Azadi), Alla rivolta il regime teocratico di Ebrahim Raisi risponde con il pugno di ferro, con un apparato repressivo senza precedenti, con una repressione violenta e sproporzionata, che viola i più basilari diritti della persona con la polizia morale e telecamere diffuse ovunque per identificare le donne e le ragazze che si rifiutano di indossare l’hijab obbligatorio. Cresce il numero delle vittime fra i manifestanti. A un anno dall’uccisione di Mahsa, giace in coma profondo su un letto di ospedale, Armita Geravand, una ragazza di 16 anni, dopo essere stata aggredita ferocemente su un vagone della metropolitana, sempre dalla cosiddetta polizia morale, perché non indossava correttamente il velo.
Le istituzioni internazionali si facciano sentire con parole inequivocabili. La stampa ci ha ormai abituato a passare da momenti di martellante informazione a fasi di silenzio pressoché totale sugli stessi temi. E se perdiamo anche la nostra capacità di indignarci di fronte ai drammatici fatti che sconvolgono l’Iran, e non denunciarli, equivale ad esserne complici. Il nostro pensiero vada allora ogni giorno a Narges Mohammadi e alle tante donne iraniane che stano lottando con coraggio anche mettendo a rischio la propria vita.
di Cristina Tirinzoni