Adolescenti, “terra di nessuno”. Almeno quando si parla di bisogni e continuità assistenziale. Per loro non ci sono servizi e strutture dedicate, per loro non c’è una figura specializzata in problematiche cliniche (fisiche e mentali) che colpiscono i giovani tra 10 e i 19 anni. E così gli adolescenti si ritrovano a dividere spazi e cura con gli adulti, in cui i linguaggi delle parole, delle richieste, delle necessità e degli approcci sono sensibilmente diversi. Restano allo scoperto, in una “età di transizione” – quella del passaggio dalla vita adolescenziale all’adulta – di per sé difficile, allo sbaraglio nel gestire la dicotomia fra lo stato psico-emotivo e le sollecitazioni che provengono dall’ambiente, senza un tessuto sociale, relazionale, che li supporti e li accompagni adeguatamente. Inevitabilmente i disagi e le problematiche aumentano. Anche e soprattutto a livello mentale, con manifestazioni crescenti e ingravescenti, esplose dopo la pandemia; i dati presentati nel corso del convegno “Dall’età evolutiva all’età adulta: transizione e tutela della salute mentale percorsi interdisciplinari e presa in carico”, organizzato da Fondazione Onda e SINPF (Società Italiana di Neuropsicofarmacologia), in collaborazione con Regione Lombardia, sono importanti: riferiscono che i disturbi mentali sono pari al 16% del carico globale di malattie nella fascia 10-19 anni, il 40% rappresentato da ansia e depressione, con ripercussioni che dall’infanzia evolvono nell’adolescenza fino, spesso, all’età adulta, richiedendo una presa in carico molto prolungata a partire della maggiore età. Numerosi studi, inoltre, evidenziano che il 78% dei bambini che ricevono una diagnosi di disturbo mentale durante l’infanzia, come l’ansia, è a rischio per lo sviluppo di disturbi psicopatologici più gravi nelle fasi di vita successive e che gli adolescenti con un disturbo mentale diagnosticato hanno una probabilità sei volte superiore di ricevere una diagnosi di disturbo psichiatrico da giovani adulti. A ciò si aggiungono i casi di suicidio, seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni. Eppure dati ed eventi sembrano non bastare a “smuovere le acque”: l’Italia non investe adeguate risorse, umane ed economiche, nella salute mentale che non superano il 3% contro almeno il 5% previsto e approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni del 2001.
«Disturbi psichici, soprattutto ansia e depressione, disturbi del sonno, panico, disagi post-traumatici da stress, atti di autolesionismo e molto altro hanno investito i giovani come una vera e propria ondata epidemica, i cui effetti emozionali a lungo termine non sono ancora ben calcolabili e delineabili – dichiarano Claudio Mencacci e Matteo Balestrieri, Co-Presidenti SINPF. La mancanza di una rete di supporto sociale o sanitario, dall’insegnante ad altri adulti di riferimento a livello extra-familiare, ha acuito un sentimento di sofferenza psichica già latente che impatta negativamente anche sulla qualità e quantità di vita in tutti i suoi ambiti: personale, affettivo-familiare, socio-relazionale e lavorativo. La pandemia ha agito da amplificatore su una tendenza già in atto, tanto che molti dei giovani d’oggi sentono in prima persona il peso di dover ereditare un mondo in crisi e in guerra». È una chiara invocazione di aiuto da cogliere senza attendere: i giovani, gli adolescenti, hanno maggiore apertura a rivolgersi a figure professionali esperte, infrangono le barriere della vergogna e dello stigma tipico dell’età adulta: da qui la necessità di avviare servizi di continuità assistenziale ospedale-territorio, con la partecipazione di tutte le figure professionali coinvolte, Medico di Medicina Generale, Pediatra di Libera Scelta, psicologo, psichiatra, neuropsichiatra infantile, medico delle dipendenze e così via. «È prioritario ripensare all’organizzazione dei servizi, soprattutto per quanto riguarda l’età della transizione, tra 14 e 24 anni – aggiunge Emi Bondi, Presidente SIP (Società Italiana di Psichiatria) – la più scoperta in termini di presa in carico e continuità dei percorsi di cura, nonostante sia quella in cui esordiscono la maggior parte dei disturbi psichici.
È inderogabile la creazione di servizi dedicati, che vedono la collaborazione della UONPIA (Unità Operativa Neuropsichiatria Psicologia Infanzia Adolescenza) e della Psichiatria, la costituzione di équipe multidisciplinari che si occupano degli esordi e sono in grado di erogare un trattamento integrato, continuativo e peculiare alle esigenze dell’età, oltre che della cura della patologia». Tanto più che la legge non sembra essere dalla parte dei giovani adolescenti; con il compimento dei 18 anni perdono, infatti, il diritto a usufruire delle prestazioni nell’ambito della Neuropsichiatria infantile, tra cui anche la frequentazione dei centri diurni per adolescenti, rendendo dunque la transizione tra i vari servizi di cura complessa e critica. Scenario che diventa ancora più delicato e drammatico in caso di giovani che, alla fine del percorso scolastico, perdono anche le figure di supporto e sostegno all’interno della scuola, o di minori autori di reato. Allo stato attuale, le difficoltà strutturali, la carenza di personale, spesso non adeguatamente formato a competenze tecnico-specifiche, rendono di fatto i Servizi territoriali incapaci di supportare i giovani. Risultato: molte delle strutture assistenziali vengono chiuse e i neomaggiorenni sono in balia degli eventi. Costretti a dover abbandonare il luogo di cura frequentato fino al giorno prima, affidati a un Servizio di Psichiatria inadeguato per dare loro assistenza e che esita in un allontanamento dei giovani dalla struttura, fino all’interruzione della terapia e dunque all’inevitabile aggravamento del disturbo mentale. Un circolo vizioso, i cui effetti si traducono, ancora una volta, in numeri importanti: oltre il 40% di ragazzi bisognosi di assistenza e cura persi nell’età della transizione, con un rischio aumentato di esposizione all’abuso di sostanze psicoattive a scopo di autocura, all’abbandono scolastico, alla marginalizzazione. «È chiaro che gli adolescenti oggi vivono un grande disagio – conclude Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda – e se da un lato è fondamentale che lo esprimano a gran voce affinché i genitori ne siano consapevoli e si possa intervenire tempestivamente, dall’altro si deve garantire che il servizio di presa in carico sia efficace, non dispersivo e non lasci indietro nessuno. Al compimento della maggiore età, i giovani non si devono perdere all’interno del sistema, perché laddove sia ottenibile la guarigione, possono essere adottati interventi efficaci in grado di ridurre l’intensità, la durata dei sintomi e le conseguenze».
Concretamente cosa sarebbe possibile fare? Organizzare servizi per patologia, ad esempio per i disturbi del comportamento alimentare, spesso indice di un primo disagio, con équipe multidisciplinari in cui la transizione avvenga all’interno del servizio stesso; implementare procedure di passaggio per età, non rigidamente anagrafiche, ma che tengano conto della situazione clinica ed evolutiva del ragazzo/adolescente; prevedere servizi dedicati che coprano non solo l’ambito ambulatoriale, ma anche i reparti per i casi acuti e strutture riabilitative dedicate.
di Francesca Morelli