In occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio), vogliamo ricordare l’inno alla vita di Etty Hillesum, uccisa nel campo di sterminio ad Auschwitz il 30 novembre1943. Quanta fiducia nella vita e nell’umanità, quanta potenza contro il male assoluto. Etty Hillesum, l’intrepida ebrea olandese, è stata una giovane donna libera, inquieta e irriverente, tenacemente intenta alla scoperta di sé stessa e del senso dell’esistenza. Nel pieno del delirio nazional-socialista e della deportazione razziale, ci insegna a superare l’odio e fare “scorta d’amore”. Dobbiamo davvero ringraziare la scrittrice Elisabetta Rasy di avercela raccontata. Nel suo ultimo libro, Dio ci vuole felici (Harper Collins), parla della vita di Etty Hillesum, morta a soli 29 anni ad Auschwitz, annientata in una camera a gas dalla furia nazista e ne ripercorre la vita così breve e splendente, e si misura con il suo pensiero, in un ideale dialogo a distanza. Ne avverte la sintonia, intrecciando ricordi personali. In un contrappunto che chiama a raccolta altri libri, altre storie, soprattutto altre donne straordinarie dello stesso terribile periodo che hanno rappresentato l’amore per la libertà. Proprio come Etty.
Elisabetta, quando è avvenuto “l’incontro” con Etty?
«Molti anni fa mi capitò tra le mani il libro di una perfetta sconosciuta. Era il diario di una ragazza colta, libera e sensibile, che non aveva fatto in tempo ad arrivare a quei trent’anni che avevo io mentre leggevo: si chiamava Ester, era nata a Middelburg in Olanda, il 15 gennaio 1914, da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica (suo padre, un insegnante di lingue classiche, sua madre, nata in Russia, e sfuggita a un pogrom nel 1907), era morta ad Aushwitz nel 1943. Ciò che mi colpì nella lettura però non fu solo la sua fine tragica e l’infinita forza spirituale con cui aveva attraversato quel periodo così buio della storia. Fu lo straordinario racconto della sua giovinezza. Certo non le ultime pagine: lì si erge un muro e suscita il mio ammirato sgomento e ogni paragone sarebbe azzardato, ma leggendo la trama della sua giovinezza ho riconosciuto i miei vent’anni. Sentii una sorprendente intimità tra noi. Imprevedibilmente molto più vicina di quanto non avrei immaginato. Da quel momento Etty diventò un’amica intima, che avrei tenuto sempre con me».
Perché scrivere di Etty Hillesum?
«Ho cominciato a scrivere di donne molto tempo fa. Nei miei romanzi (Tre passioni, Le disobbedienti Le indiscrete, per citarne solo alcuni), racconto donne che sono riuscite a imporsi nell’arte, nella letteratura, nella fotografia, in epoche ostili e contesti diversi. Donne che hanno scelto la libertà, in tempi e situazioni in cui la libertà femminile era guardata con sospetto oppure, molto più spesso, non era assolutamente tollerata. Donne in cerca di un diverso modo di stare al mondo. E che con la loro storia concorrono a creare una sensibilità, un po’ di autostima e di consapevolezza femminile anche alle donne di oggi. Anche Etty apparteneva a quella schiera di ragazze del ‘900 che decise di rompere con il protocollo femminile tradizionale, e di impostarne uno nuovo in cui oggi ogni donna può riconoscere le proprie emozioni, la forza e la fragilità, la paura e il coraggio. A questo proposito, la voce di Etty ci parla ancora».
Come era la giovane Etty?
«All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna vitalissima e passionale. Colta e di intelligenza brillante. Legge Rainer Maria Rilke, Fëdor Dostoevskij, Carl Gustav Jung. È ebrea, ma non osservante. A diciotto anni lascia Middelburg, per frequentare l’università ad Amsterdam (Giurisprudenza) e sogna di diventare scrittrice. Al numero 6 della Gabriel Metsustraat, affitta una stanza in una casa di mattoncini rossi. Una camera accogliente con libri e un vaso di margherite sul tavolo, presso un vedovo, Han Wgerif. Etty gli fa da governante per risparmiare sull’affitto. Ma da subito diventa sua amante. Nella stessa casa vivono anche una cuoca, uno studente e Maria Tuinzing, un’infermiera che diverrà la sua migliore amica e a cui Etty affiderà i suoi diari prima di essere deportata. Etty è una ragazza appassionata e insaziabile di vita e di amore; piena d’immaginazione e ardore, ironica, tenera, crudelmente sincera, costantemente innamorata. Di uno, di due uomini contemporaneamente. Di un albero. Delle poesie di Rilke. Di Dostoevskij. Sfoggia orecchini vistosi, collane, anelli di fattura etnica. Fuma e beve vino rosso. E se le piace un fiore se lo stringe addosso come se volesse divorarlo. Fa lo stesso quando vuole un uomo. Vive l’amore con una libertà e spregiudicatezza molto moderne. Quando scopre di aspettare un bambino da Han Wegerif, decide di abortire. Lotta contro l’irrequietezza del suo cuore. Si detesta quando non riesce a tenere sotto controllo i suoi sentimenti. È, come tutti i giovani, “infelice da morire”. Mille mali di origine per lo più psicologica la affliggono, ha sempre freddo, fortissimi dolori alla testa, alla pancia».
Sulla copertina del libro c’è l’immagine di una bicicletta con un cesto colmo di fiori. Perché l’ha scelta?
«Etty amava andare per le vie di Amsterdam con il vento che le soffia fra i capelli, con una nave a vela appuntata sul suo cappello di Astrakan. Ho questa immagine che non mi abbandona: Etty che si regge forte alla sua bicicletta che sente sotto di lei come un cavallo da domare. A un certo punto agli ebrei sarà proibito persino di andare in bicicletta. Etty scrive nel suo diario: “Oggi è iniziata l’era della “non biciclette”: non dobbiamo più temere che vengano rubate”».
Il suo diario è un percorso di crescita umana e spirituale…
«La sua vita fu “un ininterrotto ascoltar dentro me”. Ogni brano del diario, ogni lettera contiene tutto ciò che lei ha vissuto, sentito, pensato, fatto. Un incessante interrogatorio sull’esistenza, su come affrontarla, su come essere. La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, come è lei stessa a definirsi, si rivolge a Dio. Il suo era un Dio intimo, “personale”. Etty non invoca il Dio di una particolare tradizione religiosa: il “suo” Dio, scrive “è quella parte di me, la parte più profonda e la più ricca in cui riposo”. Un Dio che “va salvato” proprio perché lo si tiene nell’intimo del proprio cuore. Di fronte a un inferno assoluto, sostiene che: “Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio”. Un’affermazione sorprendente, così straordinaria: per Etty la responsabilità di ciò che accade non è di Dio, ma degli uomini».
C’è una frase della Hillesum che ama in modo particolare, una di quelle che si ricopiano su un quaderno per non dimenticarle?
«Una che amo molto, oggi più che mai necessaria. Mentre il male mostra la sua faccia più terribile, la Shoah, lei annota: “Una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile”».
Quando il libro vide la luce, qualcuno si scandalizzò per quel diario che parlava di amore in piena furia nazista.
«La bellezza del Diario di Etty, la sua importanza, è proprio in questo: nell’ostinazione con cui celebra la vita. Etty continua a trovarla meravigliosa e a sentirsi un cuore pensante. Scrive che il 1941, un anno di terribile persecuzione degli ebrei, “è stato l’anno più bello della sua vita”: si è innamorata di un uomo Julius Spier, un uomo di 54 anni carismatico terapeuta, ebreo, che dalla lettura delle mani cerca di risalire allo spirito, fuggito da Berlino, dove ha lasciato una moglie e due figli, e una giovane fidanzata in fuga come lui dalla Germania nazista, e che lo attende a Londra. Etty lo sa. Eppure decide di vivere ugualmente questa storia d’amore. Sarà amante, amico e maestro spirituale».
Fu lei a decidere il 30 luglio 1942 di andare come volontaria a Westerbork, il campo che è ormai un luogo di partenza senza ritorno dai campi di sterminio. Le proporranno poi nascondigli, possibilità di fuga… eppure Etty fu irremovibile. È una posizione difficile da comprendere.
«Certo anche io mi sarei infuriata per la sua ostinazione, ma non sono d’accordo né con chi critica la sua decisione di non sottrarsi, né con chi la esalta come esempio. Non c’è in lei alcuna vocazione al martirio. Non fu rinuncia a resistere, a indignarsi, a giudicare. E non lo fece perché sottovalutava il pericolo di morire. Ne era consapevole. Il 3 luglio 1942, scrive: “Vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so”. Etty rifiuta di combattere la persecuzione nella forma della rivolta, dell’odio, del disprezzo. La sua scelta fu di stare vicino al suo popolo. E quando parla del “suo popolo” non parla degli ebrei. Con “il mio popolo” si riferiva alla popolazione umana nella sua interezza ossia ogni essere umano vessato, discriminato, perseguitato. Le ultime parole che annota sul diario sono: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Difenderà la sua anima e la sua giovane vita, felice e infelice, con tutti gli strumenti che la semplice quotidianità le mette a disposizione: rammendare le calze, leggere le poesie di Rilke, ascoltare musica, riposare sul vecchio divano sotto l’amato plaid blu, approfondire la conoscenza del russo, la lingua di sua madre, bevendo caffe vero quasi introvabile con la guerra. Protegge la sua anima quando, seduta su un bidone nella baracca del campo di Westerbork, guarda, quasi fosse un giardino incantato, il prato di lupini gialli, unici fiori della desolata brughiera. Il 7 settembre del 43 è il suo turno di salire sul treno dei deportati. Mette nello zaino la Bibbia, una grammatica russa e dei libri di Tolstoj. Da una feritoia del vagone piombato, era riuscita a gettare una cartolina, indirizzata a un’amica, raccolta da un contadino: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.
di Cristina Tirinzoni