Beta-talassemia: le nuove terapie che aumentano la sopravvivenza

«Il tempo passava tra lacrime, viaggi e trasfusioni. Dopo due anni e mezzo nasce mia sorella Maria: stessa sorte, stessa condanna. Dopo un anno morì sotto i miei occhi: eravamo ricoverate a Marsala per la trasfusione e Maria ebbe una reazione terribile che se l’è portata via. C’era poi un altro grave problema: spesso mancava il sangue per le trasfusioni. Non si possono contare le volte in cui mio padre lo ha donato. All’epoca non esisteva la goccia lenta: la trasfusione si faceva iniettando sangue con grandi siringhe direttamente nelle vene del collo. Vi lascio immaginare le scene dei bambini che piangevano tenuti dalle infermiere e delle mamme che si disperavano fuori in sala d’attesa. Nel frattempo avevano inventato la goccia lenta: da quando avevo sei anni il dottore rassicurava i bambini che le trasfusioni non sarebbero più state dolorose… E così è stato e lo è tuttora. Oggi ci sono i farmaci chelanti, che si assumono per bocca, e impediscono l’accumulo di ferro negli organi, soprattutto fegato e cuore, una delle maggiori complicanze della talassemia che prima provocava gravi conseguenze, fino alla morte. Oggi ho alcuni capelli bianchi: mai avrei pensato di arrivare a 55 anni. Devo ringraziare la mia famiglia: mia madre e mio padre, in particolare: sono stati tenaci, non hanno mai mollato e mi hanno insegnato a camminare da sola: a crescere, vivere e sperare in un futuro senza malattia».

Il racconto di Rosa, insieme a quello di altre donne “coraggiose” che convivono con una malattia del sangue, come la beta-talassemia, un tempo letale per molti bambini, è riportato nel libro: “Mettiamo l’acqua rossa: vivere contro la talassemia”, scritto dal dottor Giovan Battista Ruffo, consigliere del Comitato Direttivo della Società Italiana Talassemie ed Emoglobinopatie (SITE). Per conoscere meglio questa malattia e le cure oggi disponibili, abbiamo intervistato la professoressa Raffaella Origa dell’Università di Cagliari, presidente della SITE e responsabile del Centro Microcitemie e Anemie Rare, ASL di Cagliari, intervenuta all’evento “Strade parallele: il significato del tempo nella beta-talassemia” che si è tenuto i giorni scorsi presso il Centro Studi Americani a Roma, dove è stata presentata un’indagine curata da Elma Research (vedi box).

Cosa si intende per beta-talassemia?
«È una forma di emoglobinopatia in cui esiste un deficit di catene beta globiniche dell’emoglobina. Si tratta di una malattia genetica, autosomica recessiva: è considerata “rara”, ma in Italia ci sono almeno 7000 pazienti. Esistono due forme principali di beta-talassemia: una in cui i pazienti devono sottoporsi a trasfusioni regolari per vivere (73%). Una minoranza ha invece un’anemia meno grave che permette la vita senza trasfusioni continue».

È una malattia che è presente dalla nascita nei bambini, che un tempo sopravvivevano per pochi anni. Oggi molti di loro sono adulti e convivono con la malattia. Come si è evoluta l’epidemiologia?
«Fino agli anni ’60 la beta-talassemia era una patologia rapidamente fatale: i bambini morivano nei primissimi anni di vita. Poi, piano piano, la possibilità di utilizzare la terapia trasfusionale, ha permesso loro di sopravvivere per un numero sempre maggiore di anni, ma non c’erano adeguate terapie ferrochelanti, in grado di contrastare l’accumulo di ferro, secondario alle trasfusioni, che portava a complicanze, soprattutto cardiopatia, prima causa di morte. Questo è avvenuto fino agli anni 2000 circa; poi è cambiato moltissimo. Sono stati introdotti farmaci ferrochelanti orali che impediscono l’accumulo di ferro a livello cardiaco e si sono affiancati all’unico chelante che già esisteva in Italia dalla fine degli anni ’70 e aveva permesso un aumento della sopravvivenza, ma essendo per via iniettiva, a somministrazione quotidiana per molte ore al giorno, non era particolarmente gradito ai pazienti. Oggi esistono farmaci ferrochelanti orali, molto più comodi da usare, che hanno aumentato la compliance da parte dei pazienti e di conseguenza la loro sopravvivenza. In più si utilizzano strumenti diagnostici, come la Risonanza Magnetica, che permette di quantificare l’accumulo di ferro nei due organi chiave che sono il cuore e il fegato. E questo consente di monitorare meglio i pazienti e prevenire tante morti. Per questo i bambini, che un tempo erano affetti da beta-talassemia, sono ormai diventati pazienti adulti».

Un altro motivo per cui nascono meno bambini talassemici e vengono curati precocemente, immagino sia una migliore informazione sulla malattia…
«Di bambini talassemici ne nascono sempre meno, ma la patologia non è in via di estinzione. Quelli che nascono con la patologia sono per la maggior parte frutto di una decisione consapevole dei genitori che scelgono, comunque, di mettere al mondo figli, anche se affetti da questa malattia, consapevoli che le terapie oggi esistenti permettono loro una vita degna di essere vissuta. Le probabilità che un bambino sia malato sono del 25% nel caso di genitori sani, ma portatori del gene alterato per questa malattia. Ci sono genitori che hanno anche più figli malati. Oggi però è aumentata la consapevolezza della malattia e la prevenzione delle nascite non consapevoli. I genitori devono essere informati di come si gestisce la talassemia oggi e lo specialista ha il compito di accompagnarli in questa scelta. Oggi ci sono tante donne talassemiche che sono diventate madri a loro volta, tanti uomini che sono diventati papà e addirittura nonni. Abbiamo pazienti medici, professori, scrittori. È fuori dubbio che i pazienti oggi adulti possano avere comorbidità che incidono sulla qualità di vita. Pazienti che hanno 60 anni, risentono indubbiamente di queste complicanze. Mentre i bambini che nascono adesso con la talassemia, grazie ai nuovi farmaci, dovrebbero avere una prospettiva di vita più lunga, praticamente analoga a quella dei bimbi sani».

La terapia trasfusionale verrà sempre praticata o si prospettano alternative “risolutive”, come ad esempio la terapia genica?
«La terapia genica è già in fase di sperimentazione (gene editing) in diversi studi multicentrici internazionali. Per l’Italia l’unico centro che sta partecipando a queste sperimentazioni è l’Ospedale Bambino Gesù di Roma. L’obiettivo di questa sperimentazione è di riuscire a manipolare le cellule staminali del soggetto, prelevandole e modificandole in laboratorio, in modo che siano in grado di produrre l’emoglobina in modo normale. Questa ipotesi non è un sogno, ma una realtà che sta dando risultati estremamente interessanti. I pazienti che ricevono queste cellule staminali modificate producono emoglobina normale e questo può consentire di abbandonare le trasfusioni. A queste sperimentazioni stanno partecipando bambini e giovani adulti, dai 12 ai 35 anni: da poco si stanno trattando anche bambini sotto i 12 anni. I risultati sono comunque promettenti, e siamo in attesa delle autorizzazioni che permettano di utilizzarle nella pratica clinica e renderle disponibili per il maggior numero di pazienti».

di Paola Trombetta

Il peso della malattia su pazienti e caregiver

Trasfusioni e visite che in media richiedono 3 giorni al mese, 36 in un anno. Chi convive con la beta-talassemia dedica ore e ore, ogni settimana, alla malattia e alla sua gestione: in media sono 4 le ore impiegate ogni settimana per esami specialistici e 19 i giorni che ogni anno vengono dedicati alle trasfusioni. La “misura” dell’impatto della malattia nella quotidianità dei pazienti si evidenzia dai risultati preliminari dell’indagine realizzata su pazienti e caregiver, ancora in corso, condotta da Elma Research. I dati si basano su un campione di 106 partecipanti, e fanno emergere come la patologia abbia un peso rilevante, non solo sui malati, ma anche su chi se ne occupa. «La necessità di dedicare così tanto tempo a cure e controlli influenza il modo in cui i pazienti vivono la loro vita», spiega Patrizia Amantini, Direttore di Ricerca Elma Research. «I dati lo dimostrano: considerando i pazienti fra 21 e 40 anni, si vede che il 46% afferma che la malattia modifica le abitudini, il 54% la possibilità di viaggiare, il 38% di avere una relazione stabile o sposarsi, il 42% di fare dei figli. La presenza della beta-talassemia significa per molti pazienti dover chiedere aiuto per la gestione dei figli (68%), per la cura della casa o per essere accompagnati alle visite; vuol dire anche dover fare delle rinunce rispetto ai propri hobby e interessi, a vacanze e viaggi, a momenti di relax, e per il 30% corrisponde a un re-set della propria vita in termini di lavoro e progetti familiari».

Non stupisce quindi che nei pazienti con meno di 20 anni, sentimenti comuni siano incomprensione, confusione e scoraggiamento; in quelli fra i 20 e i 45 anni a pesare di più siano solitudine e stress; mentre per quelli più anziani sia soprattutto l’affaticamento a condizionare la vita.

Per i caregiver sono sentimenti comuni: incomprensione, stress e scoraggiamento. In generale più di 3 pazienti su 10 pensano che la patologia abbia un impatto importante sulla loro vita, sentimento che si acuisce per la fascia tra i 40 e i 50 anni. Oltre il 30% richiede l’intervento di uno psicologo. Il 73% dei pazienti ha necessità di trasfusioni: migliaia di famiglie, quindi, che sono chiamate a una gestione impegnativa della cura e dei controlli, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Basti pensare che 1 malato su 4 ha bisogno, ogni volta che va a fare una trasfusione o una visita, di essere accompagnato da un caregiver. Chi accompagna i pazienti nel loro percorso di cura è molto spesso un genitore, anche oltre i 18 anni di età.

Per accendere i riflettori su questa condizione, SITE promuove la campagna “Strade parallele. Beta-talassemia: voci, immagini, bisogni”, realizzata con il contributo non condizionato di Vertex Pharmaceuticals: un progetto che, attraverso storie, testimonianze e approfondimenti scientifici vuole far riflettere su come il tempo sia un elemento fondamentale nella vita di ogni individuo e come la beta-talassemia possa influenzare profondamente la sua gestione. «È proprio a partire dalla valutazione di questa dimensione di sottrazione del tempo allo svago, agli affetti, allo studio o al lavoro, ben fotografata dalla ricerca di Elma, che pensiamo sia fondamentale far emergere le sfide che devono affrontare i pazienti, ma anche come clinici e Istituzioni debbano collaborare per trovare delle soluzioni e risolvere le criticità sul piano clinico e organizzativo», afferma il dottor Giovan Battista Ruffo, Consigliere del Comitato Direttivo SITE.
All’indagine faranno seguito iniziative, contenuti e materiali che diventeranno strumenti di informazione e sensibilizzazione per il pubblico e per le istituzioni, a livello nazionale e locale. Tra questi, una campagna pubblicitaria che sarà sia in ambito digitale che sul territorio, attraverso affissioni in diverse città italiane, e la realizzazione di un booklet che raccoglierà le storie e le testimonianze dei pazienti insieme al contributo degli esperti che sono al loro fianco per aiutarli ad affrontare e gestire la patologia. Inoltre, sono previsti eventi di sensibilizzazione che nei prossimi mesi toccheranno alcune regioni italiane con prevalenza della malattia.

Per maggiori informazioni sulla patologia e sulla Campagna “Strade Parallele” è stata creata la landing page dedicata: www.stradeparallele.it .

Paola Trombetta

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